Quando era apparso quello strano film tra la fine degli anni Ottanta e l’arrivo dei Novanta sembrava un «oggetto» quasi marziano: c’erano due ragazzi che le cui storie attraversavano l’Europa, dall’Ungheria a Gibilterra, ogni volta diversi eppure uniti da un sentimento comune, un amore finito, evaporato negli anni tra gli accidenti del tempo e della vita, nello spazio ineffabile che appartiene alle relazioni.

Lui in ognuno dei tre episodi che componevano il film si chiamava sempre Alberto, lei cambiava nome, insieme avevano scritto anche il soggetto e la sceneggiatura, lui era il regista: Corso Salani e Monica Rametta, una sorpresa inattesa. Voci d’Europa (1989), questo il titolo, era stato girato in 16 millimetri nel corso di quattro anni, era un viaggio, un on the road – forma a cui Salani non ha mai rinunciato – e che anzi diventerà il segno delle sue immagini.

POCO DOPO arriva Gli ultimi giorni (1991), ancora insieme a Monica Rametta,ancora la storia d’amore mancato in cui lui si chiama sempre Alberto e lei che vorrebbe sposare – siamo a Capraia – sposerà invece un altro. E come non rimanere stupiti dagli Occhi stanchi (1995) in cui insieme Salani c’è un altro regista che esordirà spiazzando gli sguardi poco dopo, Alessandro Piva (con La capagira, 1999); su un furgoncino vanno da Roma al mar Baltico ascoltando le vicende di una ragazza polacca, si parlava ancora molto poco di «mockumentary» e quel film ne è quasi un «prologo» ma per Salani mettere al centro la messinscena era prioritario – anche nel gioco di specchi con la realtà: la finzione era sempre dichiarata, visibile, non si imbrogliava né il personaggio né la persona.

Da allora è passato del tempo, Corso Salani non c’è più ed è bello, al di là del malinconico anniversario dei dieci anni dalla morte (il 16 luglio del 2010) che Fuori orario (Raitre, alle 01.10, poi visibili su RaiPlay) proponga la serie di Confini d’Europa (2006/2007), anche questo un lungo viaggio tra realtà poco conosciute, luoghi di passaggio e di conflitto, territori di contraddizioni che lo porta da Ceuta e Gibilterra (di nuovo) a Imatra, cittadina finlandese al confine con la Russia, e poi a Chisinau nella Moldova fino a Yotvata, nel deserto del Neghev, dove inizia la Giordania, sulle tracce di un’attrice israeliana in cerca di un «altrove» intimo e esistenziale.

LA «GUIDA», e il personaggio che porta con sé un po’ del mondo col quale a ogni tappa il regista – si confronta, è infatti sempre femminile: un sorriso, uno sguardo, una fuga, un’ epifania. L’emozione di un incontro – e le sue possibilità – che dal lontano Voci d’Europa è rimasta sempre intatta, forma e materia delle sue immagini, insieme al movimento, all’idea cioè di un cinema che avviene in un «cammino» fisico, intimo, poetico, politico.

Eccoci così a Talsi, in Lettonia, che persino chi abita a Riga non conosce; eppure c’è poca distanza ma sembra quasi un luogo straniero forse perché vi convivono lingue, etnie, religioni diverse con armonia, i russi e i lettoni da lungo tempo sono in reciproco equilibrio, e questo confine è però fragile, circondato da ambizioni più forti, come quelle della vicina Danimarca che condiziona l’economia locale. In che modo mostrare tutto questo? Salani si affida a Liga, attrice del Teatro nazionale lettone, che dialoga con altre donne e in questi incontri riesce a liberare i nodi di quella realtà con dolcezza e a distanza ravvicinata.

Salani è stato un grande regista, col tempo abbiamo scoperto che ai suoi protagonisti inquieti a cui dava corpo – e a volte come in Il peggio di noi (2006) – pieni di dolorosa furia – somigliava, prima che nella biografia quotidiana nella sua visione del fare-cinema, nella scelta ostinata, faticosa di mettersi ai margini per continuare a girare le immagini che voleva, che rispondevano al suo desiderio, in cui si riconosceva.

Non era arroganza né presunzione, piuttosto passione e, appunto, desiderio. Perché poi se quel metodo per il nostro sistema cinematografico era alieno – del resto molta «medietà» viene anche da qui – il fatto che Monica Rametta sia oggi l’autrice delle fiction tv di maggiore riuscita dimostra che era un allenamento fantastico e che dentro al cinema, più in genere alle immagini, possono, anzi devono convivere mondi differenziati.

NEL PROGRAMMA di stasera c’è anche Danilo (Passione mia n.2) cortometraggio raro del 1990, in cui un bambino diventa adulto anche se ha solo otto anni, nel giorno che i genitori hanno entrambi abbandonato la casa. Ancora un altro viaggio.