La diplomazia internazionale scalda i motori in vista della conferenza di pace di Ginevra del prossimo 22 gennaio, ma i negoziati politici paiono confusi quanto gli attuali fronti di scontro.
Le opposizioni siriane sono impegnate in faide interne che permettono l’avanzata dell’esercito governativo e, sul piano diplomatico, continuano a insistere per l’estromissione del presidente Bashar al-Assad dal tavolo negoziale. Ieri il segretario di Stato Usa Kerry, in un meeting a Parigi con il ministro degli Esteri russo Lavrov, ha fatto appello alla Coalizione nazionale siriana – a oggi il partner ufficiale – perché accetti di partecipare. La merce in cambio è la testa di Assad: Kerry starebbe promettendo alla federazione guidata da Ahmad Jarba l’esclusione del presidente dalla transizione politica futura.
Una precondizione inaccettabile per l’altro sponsor della conferenza, Mosca, che insiste perché nessuna pressione esterna costringa Assad alle dimissioni, viste sia le recenti importanti aperture verso la comunità internazionale, sia il consenso di cui ancora gode tra una buona parte della popolazione siriana. Assad, indebolito nei primi due anni di guerra civile, ha ottenuto nel 2013 significative vittorie, sul piano politico e su quello militare. Riprova ne è l’attuale spaccatura interna dei variegati gruppi di opposizione: ieri è giunta la notizia dell’esecuzione, nella provincia di Raqqa, di oltre cento miliziani delle formazioni islamiste Fronte Al Nusra e Ahrar al-Sham, da parte del gruppo qaedista dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante. Un’azione che mostra la frattura non solo tra opposizioni moderate, ma anche tra opposizioni islamiste: dal 3 gennaio, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, almeno 482 persone sono morte negli scontri tra ribelli rivali.
E ieri la posizione del regime di Damasco si è ulteriormente «ripulita»: il governo sta considerando l’apertura di un corridoio umanitario a Nord e a Est del Paese, nella regione di Aleppo e nella città di Ghouta, per permettere alle organizzazioni umanitarie di portare aiuti alla popolazione sotto assedio da mesi. Kerry e Lavrov hanno lavorato alle condizioni per un cessate il fuoco, non applicabile a tutta la Siria, ma alle aree più soggette alle conseguenze degli scontri armati: «cessate il fuoco localizzati» per accedere alle aree assediate dai ribelli, a partire da Aleppo. L’accordo comprenderebbe anche uno scambio di prigionieri, da offrire al tavolo di Ginevra 2. «Sono contento di sentire che il ministro Lavrov ha avuto contatti con il regime siriano, che si è detto pronto ad aprire corridoi umanitari», ha commentato Kerry. «Ci aspettiamo passi simili da parte delle opposizioni», ha aggiunto Lavrov.
Convitato di pietra al meeting parigino è stato, ancora una volta, l’Iran. Lavrov e l’inviato dell’Onu Brahimi hanno ribadito la necessità della partecipazione di Tehran, incontrando l’ostacolo statunitense: Kerry ha ribadito che il regime iraniano potrà prendere parte solo se accetterà la transizione politica nel Paese, ovvero l’eventuale allontanamento del presidente Assad a favore di un governo di unità nazionale.
«Accoglieremo la partecipazione dell’Iran, se confermerà la sua presenza all’interno degli obiettivi che abbiamo previsto per Ginevra 2», ha sottolineato il segretario di Stato. Da parte sua il ministro degli Esteri del nuovo governo iraniano guidato da Rohani, Javad Zarif, sarà a Mosca giovedì per un incontro con il presidente Putin e poi volerà a Damasco.
Tehran è chiara: «Se riceveremo un invito senza precondizioni, parteciperemo a Ginevra 2 – ha detto Zarif – Ma non faremo nulla per essere chiamati». In questi giorni il segretario generale Onu Ban Ki-moon sta mandando inviti a una trentina di Paesi. Per ora Tehran non è nella lista. Le prese di posizione russa e statunitense non fanno ben sperare: la diplomazia internazionale non riesce a nascondere i gap interni, proprio come le opposizioni siriane. Damasco, cuore del mondo arabo, è troppo appetibile per ogni attore sul palcoscenico di Ginevra, da Washington all’Arabia Saudita, da Mosca all’Iran. Controllare il regime siriano significa gestire gli interessi strategici, economici e politici di un’intera regione. E nessuno vuole cedere di un passo.