Chi volesse misurare in un modo originale l’andamento della guerra ‎in Siria allora dovrebbe considerare il controllo che l’esercito siriano ‎ha ripreso, pezzo dopo pezzo, dei 450 km dalla M5, l’autostrada che ‎attraversa il paese da nord a sud, da Aleppo al confine con la ‎Giordania. Un’arteria di comunicazione vitale che i siriani chiamamo ‎‎”strada internazionale”, che attraversa regioni rurali, aree industriali e ‎quattro grandi città. Seguendo questa strada, le forze armate ‎governative hanno strappato alle formazioni islamiste e jihadiste ‎‎”ribelli” gran parte della Siria. ‎«Appare chiaro che l’approccio ‎militare è stato rivolto alla riconquista della M5‎», spiegava qualche ‎giorno fa all’agenzia Afp Emile Hokayem dell’International Institute ‎for Strategic Studies‏.‏‎ ‎«La principale ricchezza, le aree industriali, ‎infrastrutturali e urbane si trovano lungo questa linea…(Damasco) ha ‎sempre voluto mantenere il controllo di tutti questi nodi‎». E se alla ‎fine del 2016 fa era stata la liberazione di Aleppo a segnare la svolta ‎a favore di Damasco, ora è Deraa a delimitare dall’altra parte del ‎paese l’ampiezza della vittoria militare ottenuta dal presidente Bashar ‎Assad.

‎ La resa due giorni fa nel sud del paese di quella galassia di gruppi ‎e formazioni che i governi occidentali si sono ostinati a descrivere ‎per sette anni come “ribelli al regime di Assad”, senza considerare la ‎loro ideologia e la loro idea della Siria futura, ha riconsegnato al ‎governo centrale più di 2/3 della Siria. Certo la guerra non è finita, le ‎sacche di resistenza dell’Isis, ad esempio, sono una spina nel fianco ‎del governo, ma il suo corso è segnato. Ha vinto Damasco con l’aiuto ‎determinante della Russia e dei combattenti sciiti libanesi di ‎Hezbollah e il contributo dell’Iran. Francia, Usa e le monarchie ‎sunnite del Golfo hanno investito invano risorse immense finanziarie ‎per far crollare Bashar Assad che invece sette anni dopo è al suo ‎posto. Israele gioca ancora la sua partita, nel sud della Siria, ma è ‎svanito il suo sogno di poter usare i “ribelli” per il controllo di una ‎zona-cuscinetto a protezione del Golan (territorio siriano che occupa ‎dal 1967). Per tre anni, da quando Mosca è intervenuta in Siria, ‎Benyamin Netanyahu ha provato a persuadere Vladimir Putin a ‎garantirgli una Siria meridionale senza “forze ostili” iraniane a ‎ridosso del Golan. E ha rischiato anche di scatenare una guerra ‎regionale nei mesi scorsi lanciando continui attacchi in Siria contro ‎presunte postazioni dell’Iran e del movimento sciita libanese. Adesso ‎che Assad controlla tutta la M5 fino al confine di Nassib con la ‎Giordania – un valico strategico per la ripresa dei commerci tra Siria ‎e Giordania -, il premier israeliano deve accontentarsi di vedere nel ‎sud della Siria solo l’esercito governativo. E può solo sperare che a ‎fargli questo regalo siano Putin e Trump nel corso del vertice che ‎avranno a metà mese.

Ieri più di 20mila dei circa 320mila siriani, sfollati nelle scorse ‎settimane in seguito all’offensiva dell’esercito a Deraa e nel sud, sono ‎tornati in 13 diverse località riprese dai governativi. Un rientro, ‎destinato ad intensificarsi, che è stato possibile grazie alla tregua e ‎all’accordo, mediato dai russi e da attuare in tre fasi, tra forze ‎governative e gruppi jihadisti e islamisti che si stanno arrendendo e ‎che sono pronti a consegnare le loro armi pesanti. Sarà la polizia ‎locale a garantire la sicurezza delle aree liberate. I “ribelli” che ‎rifiutano l’accordo potranno andare con le loro famiglie nella ‎provincia di Idlib dove si sono già diretti i miliziani sconfitti nei mesi ‎scorsi dall’esercito a Ghouta e in altri sobborghi di Damasco. ‎

Resta il nodo della ripresa di Quneitra, a ridosso del Golan. Israele ‎potrebbe prendere di mira di nuovo l’esercito siriano accusandolo di ‎essersi avvicinato troppo alle linee armistiziali. Mentre è risolto ‎quello di Sweida e di altri centri popolati da siriani drusi, rimasti ‎fuori dal conflitto ma di fatto alleati del governo. L’esercito avrà il ‎controllo pieno di quelle aree, in cambio i drusi riceveranno ‎l’amministrazione civile dei loro centri. Continuano anche le ‎trattative tra Damasco e i curdi decisi a sganciarsi dagli Usa dopo il ‎sostegno di Washington all’offensiva turca contro Afrin e il Rojava. ‎Secondo il quotidiano al Watan i curdi avrebbero accettato di ‎trasferire al governo i giacimenti petroliferi settentrionali che ‎controllano e la città di Raqqa. In cambio riceveranno uno status ‎politico e l’autonomia del Rojava, i loro combattenti saranno ‎riconosciuti e associati all’esercito siriano e la loro lingua sarà ‎insegnata nelle scuole pubbliche nelle aree curde. Da parte curda però ‎non ci sono ancora conferme.‎