«Sì. Il corpo è la nostra rivelazione – scrive Atiq Rahimi nelle ultime pagine del racconto Pietra di pazienza – I nostri corpi, i loro segreti, le loro ferite, le loro sofferenze, i loro piaceri…». Il corpo è sessualità, rivoluzione, censura, vita e morte… elemento centrale di infiniti paradigmi tra passato remoto e tempo futuro, così come viene declinato anche nelle 22 mostre di Body of Evidence, 14/a edizione di Cortona On the The Move (fino al 3 novembre). Il festival fotografico diretto da Veronica Nicolardi con Paolo Woods e il collettivo Kublaiklan presenta progetti in parte inediti di autrici e autori internazionali, tra cui Myriam Boulos, Gabriele Basilico, Rehab Eldalil, Paweł Jaszczuk, Ken Graves e Eva Lipman, Cesura con Cronache d’acqua – Immagini dal Nord Italia (realizzato in partnership con Intesa Sanpaolo e Gallerie d’Italia) e anche Chloé Jafé, Dougie Wallace, Herber Hoffmann, Charles Fréger, Klaus Pichler nell’interessantissima mostra sul tatuaggio The body as a canvas (curata da Lars Lindermann e Paolo Woods) alla Stazione C.

SE LA MANO FEMMINILE ritratta da Wanda Wultz intorno al 1935, esposta alla fortezza di Girifalco nella collettiva Corpi Celesti – Un percorso negli Archivi Alinari (curata dagli scrittori Nicola Lagioia e Chiara Tagliaferri) si concentra su un dettaglio del corpo in cui l’identità celata rafforza la componente simbolica dell’immagine in sé, nei nudi femminili scattati all’inizio del secolo scorso da Mario Nunes Vais non si vedono, eppure sono presenti, più mani.

La mano dell’autore si alterna a quelle di chi ha volutamente distrutto le lastre di vetro – la figlia Laura, quando negli anni ’60 riordinava l’archivio – e a quelle della sua collaboratrice che, invece, riconoscendone il valore le aveva recuperate dalla spazzatura. Forse proprio le tracce della distruzione (con le crepe come fili di ragnatela) rendono le immagini ancora più vitali. Parlando, invece, di corpi maschili nel lavoro Father and Son (progetto vincitore della II edizione di Cortona On The Move Award), Valery Poshtarov ritrae anche Alessandro Cinque con suo padre Giovannino: un passaggio del testimone della passione per la fotografia. Sembra quasi un cameo, considerando che Alessandro Cinque espone a Palazzo Baldelli il progetto Atrapanieblas (Fog Nets) con cui ha conseguito il Premio Amilcare G. Ponchielli – XIX edizione: il reportage documenta il sistema di reti con cui l’acqua viene raccolta sulle colline di Lima, abitate in parte abusivamente dai migranti provenienti dalle zone rurali del Perù.

AL CORPO POLITICO E SOCIALE rimanda anche la fotografia in bianco e nero di un pianoforte sommerso dall’acqua in un interno a Houston, durante l’uragano Harvey nell’agosto 2017, presentata da Philip Montgomery in American Mirror: agli antipodi rispetto alla storia di Niccolò Rastrelli (They Don’t Look Like Me) sul fenomeno dei «cosplayer», coloratissima e pop ma non meno inquietante. Gli archivi sono spesso una fonte d’ispirazione preziosa, come nelle immagini sui corpi in movimento, tra gesti isolati e sequenze che Carl Ander (Static Motion) ha estrapolato dai libri collezionati, ma soprattutto nel potentissimo lavoro da Carmen Winant sull’aborto The Last Safe Abortion (il libro è pubblicato da Mack Books).

Riprendendo idealmente il precedente My Birth, in cui aveva tappezzato le pareti del MoMa di New York con foto sull’esperienza fisica del parto, la fotografa statunitense propone un ritratto collettivo al confine tra visibile e invisibile, attraverso migliaia di immagini realizzate negli Stati Uniti tra il 1973 e il 2022, quando l’aborto era legale. Lo stesso progetto è attualmente esposto alla Whitney Biennial 2024 (fino all’11 agosto). Da archivi privati, nonché di organizzazioni e istituzioni del Midwest provengono quelle foto «ordinarie» in cui sono documentate fasi diverse dell’assistenza in caso di interruzione volontaria di gravidanza. Un diritto, quello di ricorrere all’aborto sicuro e legale, che ogni donna dovrebbe poter esercitare liberamente.