In tempi recenti stiamo sempre più assistendo a uno «de-sbiancamento» (De-Whitening) del mondo non solo dell’arte, ma della cultura in generale. Mentre del tutto auspicabile, non sempre tale movimento viene accompagnato da concreti contenuti.  Se non avere un artista nero nel parterre degli artisti rappresentati è diventato ormai quasi «inaccettabile» per una galleria – forse una mancanza di strategia finanziaria, visto quanto gli artisti e artiste non bianchi/e influenzano i valori del mercato dell’arte – non sempre, appunto, queste scelte vanno oltre interessi economici. E’ invece innegabile quello che, prima ancora di Achille Mbembe, Ngũgĩ wa Thiong’o indicava come via necessaria per contribuire alla liberazione delle culture del mondo: lo spostamento del centro. Il Sud del mondo, e non solo il continente africano, sta dando delle interessantissime scosse telluriche al mondo globalizzato della cultura occidentale.

La prima edizione della Bienal das Amazônias ha aperto, con ingresso gratuito, il 4 agosto a Belém, capitale dello stato del Pará. Curata da Sandra Benites – divenuta famosa come prima curatrice indigena del Masp-Museu de arte de São Paulo, ma anche per essersi dimessa dall’incarico nel maggio 2022 dichiarando che «la sua presenza sembrava essere più al servizio dell’immagine di un ‘museo diverso’ piuttosto che un reale interesse per il suo lavoro» – insieme a Flavya Mutran, Keyna Eleison (Mam-RJ) e Vânia Leal. Curioso, invece, che a capo della direzione artistica ci sia Yasmina Reggad, curatrice di base a Londra e al timone del Padiglione francese della Biennale di Venezia del 2022. La Biennale si estende a musei (Museu da Ufpa), gallerie e altri spazi culturali pubblici della città di Bélem dove ci si potrà imbattere in opere site-specific di artisti nazionali e internazionali. Confermando il ruolo pedagogico che gli artisti indigeni incorporano nel proprio lavoro, sia di curatela che di pratica artistica, la Bienal das Amazônias ha dedicato molta attenzione alla formazione di oltre 60 mediatori con conoscenze ed esperienze diverse ma tutti accumunati dall’essere originari della regione amazzonica. Il progetto ricorda quello dei Sámi Pathfinders del Padiglione Sámi della scorsa Biennale di Venezia. Simile ai mediatori amazzonici, gli studenti provenienti dal territorio Sápmi, guidavano i visitatori offrendo approfondimenti sulla cultura e la società dal punto di vista Sámi. Appare evidente la volontà politica di promuovere una conoscenza situata.

Vista da 35ª Bienal de São Paulo – coreografias do impossível © Levi Fanan Fundação Bienal de São Paulo

Se la Bienal das Amazônias, essendo alla sua prima edizione, si può ancora permettere un salutare distanziamento dall’implicito peso che il termine stesso racchiude nel mondo dell’arte, la 35/a Biennale di São Paulo, Coreografias do Impossível, che si è aperta  (sempre a ingresso gratuito) lo scorso 6 settembre, rappresenta un interessante contro-peso proveniente dal Sud. La seconda più antica rassegna d’arte sembra infatti voler concretizzare «l’intuito decoloniale» che aveva dichiarato la precedente edizione del 2021, addirittura presentata come «La Biennale Indigena». Peccato che l’opportunismo sia stato tragicamente denunciato dall’artista Jaider Esbell in un’intervista rilasciata poco prima della sua morte, a novembre del 2022, in cui rendeva pubblico come la Biennale si fosse appropriata della presenza indigena per valorizzare il proprio impegno politico, mentre non è mai esistito alcun dialogo con l’istituzione. Le dichiarazioni ricordano quelle di Sandra Benites riguardo alla sua nomina a curatrice aggiunta del Masp.

Vista da 35ª Bienal de São Paulo – coreografias do impossível © Levi Fanan Fundação Bienal de São Paulo

La situazione sembra ribaltarsi con la curatela assunta dal collettivo formato da Diane Lima e Hélio Menezes e da Manuel Borja-Villel e Grada Kilomba. Come nel 2015 quando la 56/a edizione della Biennale di Venezia aveva avuto per la prima volta nella storia dell’istituzione un curatore nero, Okwui Enwezor, dopo 72 anni è la prima volta che la Biennale di São Paulo vede come parte del team tre  curatori neri. Sono numeri che ci dovrebbero far pensare. Menezes è stato anche uno dei curatori aggiunti della acclamata mostra Histórias Afro-Atlânticas tenutasi al Masp e Instituto Tomie Ohtake, nel 2018 parte della serie Historias, un progetto dell’attuale curatore della prossima edizione della Biennale di Venezia, nonché direttore artistico del Masp Adriano Pedrosa, che presenta quest’anno Histórias indígenas.

Vista da 35ª Bienal de São Paulo – coreografias do impossível © Levi Fanan Fundação Bienal de São Paulo

Con 121 nomi, la maggior parte dei quali provenienti dalle diaspore e popolazioni indigene, Coreografias do Impossível si prefigge di essere di ispirazione a generazioni future, ridefinendo i confini di ciò che è possibile nell’espressione artistica. In primis abolendo veramente definizioni nazionali. Sono infatti state cancellate dai materiali divulgativi tutte le referenze alle nazionalità degli artisti. Secondo i curatori ciò che li accomuna è l’impossibilità di vivere in piena libertà e le disuguaglianze che subiscono. Sono queste esperienze che trasferiscono e trasformano nelle loro espressioni artistiche.