Alleluja. Si vota il 12 dicembre, giusto il quinto pellegrinaggio alle urne, fra elezioni e referendum, in cinque anni: sei settimane di campagna elettorale.

Giovedì Jeremy Corbyn ha lanciato quella del partito laburista. «Voi da che parte state?» ha detto retoricamente ai suoi, citando non Bruce Springsteen ma Pete Seeger.

«IL LABOUR METTERÀ ricchezza e potere nelle mani dei molti. I conservatori di Boris Johnson, che pensano di essere nati per comandare, non faranno altro che preoccuparsi dei pochi privilegiati. Noi perseguiremo gli evasori fiscali, i padroni di casa disonesti, i padroni scorretti, i grandi inquinatori».

Barracuda come Mike Ashley (boss della Sports Direct, dai metodi che fanno sembrare Amazon una cooperativa di compagni), squali come Rupert Murdoch.

«Perché noi, il partito laburista, sappiamo da che parte stare». Ricostruire i servizi pubblici, un vasto programma di nazionalizzazioni, proteggere la sanità pubblica, che con l’accordo di uscita stipulato da Johnson con l’Ue esporrebbe al rischio di appalto a colossi farmaceutici americani. «L’Nhs non è in vendita!» gli ha risposto in coro l’uditorio. La strategia contempla una salubre tregua dalla farsa Brexit – il partito una volta al governo rinegozierà in sei mesi un accordo con l’ Ue – per concentrarsi sui guasti di un decennio di austerità perpetrata dai conservatori. Insomma, un sogno erotico. Corbyn ha sì degli indici di gradimento molto bassi: e per questa ragione i moderati del gruppo parlamentare non volevano andare alle elezioni, mascherando la paura di perdere lo scranno verde con la doverosa precedenza da riservare al secondo referendum e appiccicandogli a forza la cimice di antisemita.

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MA LI AVEVA ANCHE NEL 2017
, quando Theresa May pensava di calpestarlo con i tacchi leopardati. E sappiamo come finì allora: May perse la maggioranza che era sicura di consolidare, consegnando il paese nelle mani di Johnson.

E poi, in questi «tempi confusi», il sondaggismo è ormai roba da allibratori. Il potente motore di Momentum è in moto a pieni giri, centinaia di migliaia di giovani si sono iscritti al registro elettorale.

Bucata per la terza volta la madre di tutte le scadenze, Johnson ha confermato di avere un naso degno di Collodi. Un po’ come la bufala del baco del millennio, il 31 ottobre è trascorso senza provocare le sommosse paventate dai brexittieri. Brexit wasn’t done, nonostante avesse spergiurato lo sarebbe stato, la scadenza è ora il 31 gennaio: danno per lui non da poco. E lo schieramento non equivoco della principale forza di opposizione lo obbliga a fingere di essere – lui, rampollo svezzato a cucchiaiate di privilegio – dalla parte del «popolo».

CI MANCAVA POI l’aiuto di Trump, che ha fatto irruzione con la solita levità da facocero nella politica interna del Paese alleato: saccheggiando il suo vocabolario di trentacinque parole, il Potus ha ripetuto che Corbyn sarebbe very bad per il paese, ma ha anche detto che l’accordo negoziato da «Boris» con l’Ue non permetterebbe al Regno Unito di fare accordi commerciali con gli Usa. Ah, e consigliandogli di allearsi con Nigel Farage.

Sì perché su entrambi gli schieramenti incombe lo spettro del parlamento senza maggioranza, esponendoli alla necessità di alleanze. Corbyn ha categoricamente escluso l’ipotesi di unirsi agli opportunisti liberaldemocratici, mentre Johnson si trova davanti al ricatto dello stesso Farage, che gli ha intimato di mollare definitivamente il Withdrawal agreement pena lo sguinzagliare candidati del suo Brexit Party in circoscrizioni contese dai conservatori.