Il quadro complessivo che si presenta all’appuntamento della COP26 mostra scarsa incisività e grande disomogeneità, con pochi casi virtuosi. Tra questi ultimi il Regno Unito, ad esempio, risultato sempre tra i paesi più attivi, con un programma costruito organicamente negli anni contenente il 78% di riduzione delle emissioni al 2035, anche se recentemente ha inserito attività che hanno allarmato gli analisti. Svezia e Danimarca hanno buone proposte nelle politiche per il clima e rappresentano punti di riferimento in Europa. Gli Usa propongono una reazione all’era trumpiana, tra mille difficoltà al proprio interno per ribaltare una eredità disastrosa perché sembra non del tutto superato lo scetticismo climatico del Congresso americano. Ma andiamo con ordine.

C’È MOLTA ATTESA DI VEDERE quali nuovi obiettivi gli Stati vorranno proporre, ma le Cop ed i negoziati sono strumenti volontari e non sembra abbiano neppure questa volta la capacità di vincolare gli impegni dei singoli governi. Sui quattro aspetti rilevanti delle politiche climatiche (riduzione delle emissioni, sviluppo delle fonti rinnovabili, riduzione dei consumi energetici e politiche per il clima), quello relativo alla riduzione delle emissioni appare generalmente il più approfondito, come evidenzia l’indice Climate Change Performance Index CCPI (https://ccpi.org/ranking/) che valuta, con una metodologia comparativa, i progressi dei principali paesi inquinatori nell’attuazione delle politiche per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Ma tale approfondimento spesso è seguito da soluzioni blande ed inefficaci. Il CCPI evidenzia per la Cina un andamento particolarmente interessante: se da un lato è possibile verificare una certa coerenza nelle politiche climatiche e nell’uso delle rinnovabili, sorprendentemente confrontabili con il Green New Deal europeo, dall’altro si riscontra una pericolosa scarsa attenzione nell’uso dell’energia e nel controllo delle emissioni.

IN EUROPA INVECE EMERGE la rilevante attività della Finlandia, sospinta dai generosi incentivi alla ricerca, con rapporto R&S/PIL superiore al 7% (in Italia poco più dell’1%). Un atteggiamento stranamente incoerente è quello del Regno Unito, come dicevamo, che si presenta a Glasgow con una recente versione della strategia Net Zero Strategy contenente agevolazioni per l’idrogeno se combinato con la cattura della CO2, incentivi al nucleare e una inspiegabile scarsa attenzione agli standard per gli edifici a zero emissioni. Tutto questo in parziale contrasto con i punti di una rivoluzione industriale verde individuati lo scorso anno.

RIFERENDOSI AL NUCLEARE, il governo britannico ha indicato in una nota che «finanziamenti come questo potrebbero sostenere il percorso per decarbonizzare il sistema elettrico del Regno Unito con 15 anni di anticipo, dal 2050 al 2035». Se a queste posizioni di ambiguità si aggiungono poi alcune decisioni da parte di Stati come Arabia Saudita, Australia e Giappone, che stanno mettendo in dubbio il significato stesso di decarbonizzazione, il quadro risulta ancora più confuso. Essi fanno pressioni sull’Onu affinché vengano ridotti i vincoli e le restrizioni, per – dicono – non penalizzare la propria crescita industriale. Modificare le raccomandazioni a pochi giorni dalla COP26 significa di fatto non volersi assumere la responsabilità di sostenere il costo delle tecnologie sostenibili per i paesi più poveri.

SUL FRONTE POSITIVO, INVECE, i Paesi più attivi nella lotta al cambiamento climatico sono anche la Svezia (non solo per le sue politiche climatiche ma anche per l’impegno verso la riduzione delle emissioni), l’Egitto per una precisa programmazione per la riduzione delle emissioni (accompagnata magari da strumenti discutibili), il Marocco e l’Ucraina sul fronte della riduzione dei consumi energetici. Sulle rinnovabili, il buon impegno, anche se non sempre in linea con gli obiettivi al 2030, riguarda i Paesi Scandinavi e la Nuova Zelanda. L’Italia si colloca nella parte bassa del ranking, risultato che risente del blocco dello sviluppo delle rinnovabili degli ultimi anni e dell’assenza di una concreta strategia complessiva: ricordiamo che si è in perenne attesa dell’aggiornamento del PNIEC e di molti dispositivi legislativi importanti come il decreto controlli, il decreto dei prezzi minimi garantiti per le bioenergie e la FER2 sulle rinnovabili non elettriche, mentre il recente decreto sulle semplificazioni non semplifica abbastanza sul fronte delle autorizzazioni degli impianti.

INFINE OCCORRERÀ VERIFICARE la posizione degli Usa, superato in questa classifica sia dalla Cina e soprattutto dall’India, sulla base dei risultati ottenuti per le emissioni pro-capite e per lo sviluppo delle rinnovabili. Nonostante le assicurazioni di Biden, è ormai quasi certo che uno dei pilastri dell’agenda climatica americana, il Clean Electricity Performance Program (CEPP), un programma da 150 miliardi di dollari destinato ad accelerare la sostituzione del carbone e la progressiva sostituzione del gas naturale con la generazione eolica, fotovoltaica e nucleare, non sarà incluso nella legge di bilancio che il Congresso si appresta a votare, e non solo a causa dell’opposizione repubblicana. Il CEPP doveva servire a rilanciare il ruolo degli Stati Uniti nel contrasto al cambiamento climatico.

NONOSTANTE PIÙ DI 100 paesi abbiano promesso di raggiungere emissioni nette pari a zero intorno alla metà del secolo, questo non sarebbe sufficiente per evitare il disastro climatico, considerato il divario tra le loro buone intenzioni sulla carta e le azioni necessarie per realizzarle. Molti degli impegni sono vaghi e, a fronte alla necessità di urgenti tagli alle emissioni, il rischio di assistere ad un nulla di fatto esiste. Inger Andersen, il direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), ha dichiarato: «Il cambiamento climatico non è più un problema futuro. È un problema ora. Per avere una possibilità di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, abbiamo otto anni per dimezzare le emissioni di gas serra: otto anni per fare i piani, mettere in atto le politiche, implementarle e infine realizzare i tagli».

ALLA LUCE DI QUESTA AFFERMAZIONE appare ancora più allarmante il quadro confuso di Glasgow, che potrebbe rendere vano anche l’impegno degli Stati più virtuosi. Questo soprattutto perché i grandi emettitori, tra cui Cina e India, devono ancora decidere se e come abbracciare il processo di decarbonizzazione, e molti altri governi – tra cui Russia, Brasile, Australia e Messico – hanno presentato piani senza alcun miglioramento rispetto ai loro precedenti impegni. E, come noto, non basta l’impegno di pochi per vincere questa partita che è di tutti.

Prorettore alla Sostenibilità Sapienza Università di Roma