E venne il giorno dell’annuncio ad affetto del governo britannico. In una conferenza stampa indetta nella metà mattinata di ieri, il ministro dell’Energia e per il cambiamento climatico del Regno Unito Greg Hands ha presentato l’iniziativa promossa dal suo governo per interrompere i finanziamenti pubblici internazionali a progetti per l’estrazione e la produzione di combustibili fossili entro la fine del 2022. Il patto non è vincolante e permetterebbe ancora un sostegno limitato alle imprese straniere di combustibili fossili, oltre a permettere delle esenzioni.

Oltre alla Gran Bretagna, nella lista i nomi più pesanti sono quelli di Stati Uniti, Canada e Danimarca, a cui si aggiungono una dozzina abbondante di “piccoli” come Mali, Costa Rica e Zambia. Rilevante la presenza di istituzioni internazionali come la Banca europea per gli investimenti, la Commissione europea e la Banca dell’Africa Orientale per lo sviluppo.

Fino all’ultimo è sembrato che l’Italia, che co-promuove la Cop26 di Glasgow, potesse essere la grande asssente tra i firmatari del documento. In effetti nella mappa presentata in conferenza stampa il Bel Paese non c’era e poche ore prima dell’annuncio la Bloomberg parlava esplicitamente di gran rifiuto tricolore.

Figuraccia evitata solo in extremis, quindi, quando già tutto lasciava pensare che l’incoerenza del premier Mario Draghi, a parole grande promotore di obiettivi ambiziosi per porre un freno ai cambiamenti climatici, fosse poi spazzata via dai fatti. Ovvero il non voler mettere un freno all’operato della Sace, che gestisce miliardi di fondi statali. L’agenzia pubblica di credito all’esportazione, di cui si parla pochissimo ma che può contare su un portafoglio ricchissimo di fondi pubblici, nel periodo 2016-2020 ha garantito 8,6 miliardi di dollari per nuovi progetti di combustibili fossili.

Un trend mai scalfito nel tempo, se non addirittura rafforzatosi, nonostante la tanta retorica istituzionale anche nostrana sulla crisi climatica. A trainare questo boom le garanzie per l’estrazione di gas di Eni in Mozambico, ma anche il sostegno a banche e imprese coinvolte in progetti devastanti nella regione dell’Artico e in Africa, tanto che già rimbalzano voci di un coinvolgimento di Sace nell’Arctic Lng-2 (mega estrazione di gas nel delicatissimo e sotto attacco Artico russo) e nel contestato oleodotto tra Uganda e Tanzania, l’Eacop.

Invece sembra che, al netto delle preoccupanti scappatoie già citate, anche la Sace dovrà ridurre la sua passione per il comparto fossile. Una volta applicato, questo l’accordo silato ieri in Scozia potrebbe “sottrarre” circa 17 miliardi di dollari al settore fossile, secondo le stime di Oil Change International. La della Ong statunitense ha anche calcolato che i paesi del G20 e le banche di sviluppo multilaterali fra il 2018 e il 2020 hanno fornito sussidi a petrolio, gas e carbone per circa 188 miliardi di dollari, 2,5 volte in più rispetto a quanto messo a disposizioni per le fonti rinnovabili. Spiccano però le assenze di Germania e Francia, così come fanno impressione le cifre riguardanti i tre giganti asiatici Giappone, Corea del Sud e Cina, rispettivamente con 10,9, 10,6 e 7,6 miliardi di dollari l’anno i paesi per generosi nel sostenere con fondi pubblici i combustibili fossili.

L’altra notizia di rilievo della giornata dedicata all’energia giunge sul fronte del carbone. Oltre 40 paesi si sono impegnati ad abbandonare per sempre quella che è il più inquinante dei combustibili fossili. Tra questi i grandi “consumatori” Polonia, Vietnam e Cile e altri 20 che non avevano mai preso impegni in merito in precedenza. Le modalità sono però poco incoraggianti, così come l’elenco degli assenti. Si parla di stop al 2040 per paesi meno sviluppati e al 2030 per gli altri, come proprio la Polonia, che in Europa rimane la più dipendente dalla polvere nera, su cui si basa oltre il 70 per cento del suo energy mix. Nella lista non compaiono però Australia, Cina, India e Stati Uniti, super-potenze mondiali del carbone. Insomma, l’ennesimo passetto nella giusta direzione che però, vista l’emergenza crescente, rischia di non bastare.