Lydie Salvayre, Prix Goncourt 2014, è l’autrice di La Conferenza (pp. 142, euro 15), pubblicato in italiano da Prehistorica Editore nella bella traduzione di Lorenza Di Lella e di Francesca Scala. Uscito in Francia nel 1999 presso Seuil, il romanzo non risente affatto il peso degli anni collocandosi nella riflessione senza tempo a proposito dello scarto che c’è tra il comunicare e l’esprimersi. Il protagonista del libro di Salvayre, infatti, tesse un elogio dell’arte del conversare; lo fa tramite un discorso autoriferito, che funge da dispositivo in cui la voce narrante prende parola e ragiona certamente del sé ma anche del mondo che abitiamo.

Lydie Salvayre dosa con maestria gli elementi che danno luce a una celebrazione della conversazione e lo fa attraverso il controcanto del monologo, interrogando le coordinate tradizionali del genere romanzesco. Non solo i generi sono messi in discussione ma anche, e in maniera decisa, le gerarchie di potere apparecchiate dai potenti a loro uso e consumo.

Parlando del signor Tribulet, dall’anima rancorosa e insieme servile, Salvayre abbozza il ritratto dell’uomo medio incapace di osteggiare i potenti, passando all’integrazione del senso della misura fino a diventare sempre più mediocre, cortese e insulso. A questo proposito l’autrice scrive: «Sono convinti di dover tacere le loro ossessioni, di dover strappare ai discorsi le eventuali spine, di doverli privare di ogni mordente, di doverli appiattire, rendere inoffensivi, anzi di doverli uccidere, per lasciar intravedere soltanto ciò che è decoroso e non sconveniente. Ossia più nulla».

Lei ha scritto questo testo alla fine degli anni Novanta, facendo sostenere al suo protagonista che l’arte del conversare fosse in via di sparizione. Come pensa siano cambiate le cose a distanza di vent’anni? Qual è la natura dello spazio che divide la comunicazione dalla conversazione?

Non credo che le cose siano migliorate da allora. Anzi, credo che siano peggiorate. Basta ascoltare la ritrasmissione dei dibattiti dell’Assemblea nazionale francese: l’aggressività, l’invettiva, il rifiuto di ascoltare, l’impossibilità di discutere; o guardare la pochezza delle parole pronunciate dalla maggior parte degli influencer e il modo in cui abusano della lingua, per convincersi che l’arte della conversazione si sta innegabilmente impoverendo. Si è lasciata contaminare, credo, dall’ordine commerciale, le cui regole si sono infiltrate in noi (e io ovviamente ne faccio parte) senza che ce ne rendessimo conto, e hanno impregnato, formattato e determinato la nostra sensibilità, il nostro comportamento e persino il nostro discorso. Così l’arte della conversazione, che idealmente consisteva nel creare una disponibilità ad ascoltare e rispondere agli altri e ad accogliere le loro differenze, è stata gradualmente contaminata dal discorso commerciale, che mira all’utile, all’efficienza, alla performance e al profitto, e cerca a tutti i costi di vincere, dominare, vendere e vendersi. Il risultato è stato l’emergere di un nuovo linguaggio: il «globish», una lingua per il globale, rimpicciolita, semplicistica, la più piatta, povera e insipida che ci sia, una lingua senza radici, senza singolarità, senza carne, senza ossa, senza nervi, senza rischio, una lingua ben pettinata e ben lucidata per piacere ai molti, cioè a nessuno; l’opposto, quindi, della letteratura, la cui Conferenza è, in un certo senso, la sua difesa mascherata e un invito a vigilare di fronte ai pericoli che la minacciano.

Alcuni passaggi del libro ricordano il «De institutione oratoria» di Quintilliano, con un sovrappiù di ironia. Quali sono stati gli altri testi di riferimento per il suo testo?

In Francia esiste un numero considerevole di manuali sull’arte della conversazione, poiché, a torto o a ragione, i francesi sostengono che la conversazione sia il loro sport nazionale. Storicamente, l’arte della conversazione si è sviluppata nel XVII e XVIII secolo, nei salotti gestiti da donne eleganti ed erudite (alcune delle quali sono ancora famose, come Mme de Sévigné, Mme Helvétius e Mme du Deffand), salotti in cui la nobiltà oziosa incontrava poeti, scrittori, studiosi e filosofi e si dedicava all’arte della conversazione per rilassarsi. La carriera poteva essere fatta o persa grazie a una sola parola arguta, a una frase ben confezionata o a una replica pungente. Bisognava essere brevi, veloci e talvolta crudeli, saper intervenire al momento giusto, maneggiare l’ironia come un’arma e avere uno spiccato senso dell’improvvisazione. Da qui il gusto per gli aforismi dei grandi scrittori dell’epoca: La Rochefoucauld, La Bruyère, Chamfort, autori che dicevano in cinque parole quello che altri esprimevano in cento. Li ammiro infinitamente e i loro aforismi mi hanno inevitabilmente influenzato nella stesura del mio libro.

Lucienne, detta Lulù, è la stella di questo romanzo. È citata dal conferenziere che parla di sua moglie non sempre in toni elogiativi, pur mantenendo nei suoi confronti un certo grado di tenerezza. Cosa c’è di grottesco in questo personaggio?

Ciò che mi ha divertita è stato sottolineare il divario vertiginoso tra le belle idee e i voli poetici del narratore sull’arte della conversazione e la loro attuazione assolutamente deplorevole nella sua vita privata, per non dire la loro inesistenza. Il narratore fa regolarmente riferimento a sua moglie: Lulù, una donna che non conosce affatto l’arte della conversazione e si occupa esclusivamente di questioni banali; Lulù, che ha appena perso e il cui lutto è vissuto come una tristezza e una liberazione allo stesso tempo – un modo per dare un calcetto all’istituzione del matrimonio, che rassicura e allo stesso tempo tiene prigionieri. Questa discrepanza tra le dichiarazioni fiorite dell’oratore e la povertà della loro attuazione è un rimprovero che a volte posso rivolgere a me stessa, e che può essere rivolto anche agli intellettuali e ad altri mercanti di frasi: quello di fare discorsi altisonanti, avvolti in tutto il giusto lirismo, ma senza alcun impatto sulla loro vita e sulle loro relazioni, senza alcuna traduzione concreta nel loro comportamento. Puri incantesimi, pura postura, o peggio, discorsi pensati per essere applauditi da quelle poche menti appassionate di brodaglia sovversiva, che non amano altro che fingere di maledire il sistema per salvarne i principi. «Parole, parole, parole!», come disse Amleto a Polonio.

Questo come altri suoi testi, anche più recenti, è un monologo. Può dirci le ragioni della sua scelta stilistica?

Credo che questo, più di ogni altro, sia un monologo che potrei riprendere, ma al contrario. Mi spiego meglio: da bambina, ogni volta che dovevo esprimermi in pubblico, soprattutto a scuola, rimanevo ammutolita. I miei genitori erano rifugiati politici spagnoli, arrivati in Francia nel 1939 senza conoscere una parola di francese, e io ho sempre avuto paura di ripetere i tanti errori che loro hanno commesso nei confronti della lingua francese. Ricordo ancora la vergogna che provavo quando l’insegnante mi correggeva su una parola sbagliata che avevo sentito dai miei genitori, che parlavano la lingua che io chiamavo «le fragnol», un misto di francese e spagnolo che non obbediva in alcun modo alle regole in uso. Ancora oggi provo una certa apprensione quando devo parlare in pubblico, per non dire delle mie apparizioni televisive, dove sembro una perfetta imbecille. Tanto che spesso mi consolo con l’idea che sono stata portata a scrivere proprio perché non potevo parlare. La letteratura come rovescio trionfante della mia incapacità di parlare, forse il suo rimedio e forse la sua vendetta. Nel mio libro, dove il narratore si atteggia a campione impareggiabile della parola, l’esultanza della mia vendetta è stata, lo confesso, portata al culmine.

Il discorso del conferenziere protagonista parte dal piccolo comune di Cintegabelle, nell’Occitania. Nelle sue parole leggiamo satira sociale nei confronti della fine secolo scorso, dell’ambiente letterario parigino, ma anche dell’ambiente della politica. Quanto l’arte del conversare può salvare la Francia, o meglio, a distanza di vent’anni lei crede che possa ancora farlo?

Credo ancora nel potere della lingua, che si possa creare con la lingua un rapporto complesso, creativo e unico che vada oltre la funzione di comunicazione a cui troppo spesso viene ridotto. Credo ancora nel potere della letteratura. Continuo a ritenere che, come sosteneva Gilles Deleuze, sia una forma di resistenza all’ordine commerciale di cui ho accennato all’inizio, e come tale rappresenta uno scandalo. Sono consapevole, però, che la letteratura di oggi si trova in una doppia ingiunzione infernale: quella di doversi vendere per esistere e, allo stesso tempo, quella di non cedere alla letteratura-merce di cui vediamo ogni giorno l’ascesa. Per letteratura-merce intendo una letteratura che si scrive con i piedi, ma che asseconda l’opinione pubblica, che si inchina ad essa, che risponde servilmente alle sue aspettative, che le vende tutta la miseria che vuole e la moralizzazione che vuole, che beneficia di un’enorme pubblicità, che è ben pettinata, ben imbrattata, ben conformata, e molto preoccupata soprattutto di non dispiacere. Tutto ciò è ben lontano da Baudelaire e dalla sua aristocratica preoccupazione di dispiacere. Lontano dal sublime sputo di Antonin Artaud. O dalla rabbia di un Pasolini che ammoniva: «chi rifiuta di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista».

Le presentazioni in giro per l’Italia

Lydie Salvayre presenterà il libro a Pordenonelegge (13-17 settembre), dialogando con Alessandro Mezzena Lona domani, alle ore 15, presso Palazzo Montereale Mantica. Sarà ospite a Bologna (Porta Pratello, il 19 ore 20,30) in collaborazione con Alliance Française Bologna e La Confraternita dell’uva Libreria indipendente; a Rovereto alla Libreria Arcadia in via Fontana 16 (il 20, ore 18,30); a Parma alla Libreria Diari di Bordo in Borgo Santa Brigida 9 (il 21, ore 18,30); a Milano presso Institut français Milano in corso Magenta 63 (il 22, ore 18, sala Cinema).