Tra meno di una settimana, come stabilito in novembre tra le autorità del Bangladesh e quelle del Myanmar, dovrebbe iniziare il rimpatrio delle centinaia di migliaia di persone della minoranza musulmana birmana dei rohingya rifugiatesi oltre frontiera nell’agosto scorso. I termini del rimpatrio fissano al 23 gennaio la data di inizio di un controesodo che dovrebbe concludersi nel giro di due anni.

Quando a fine novembre 2017, Dacca e Naypyidaw hanno siglato l’accordo per il rientro dei rohingya espulsi questa estate dai militari birmani, il bilancio delle vittime scampate all’ultimo pogrom anti musulmano era arrivato a poco più di 600 mila unità. In questi giorni, quando sono stati resi pubblici i paletti dell’accordo, l’ultimo bilancio ha aggiornato la cifra a 673mila. In buona sostanza, mentre si negoziava il ritorno, altri 70mila rohingya fuggivano dal Paese delle mille pagode e della Nobel per la pace Aung San Suu Kyi.

In che condizioni dunque può avvenire questo controesodo che i riflettori della cronaca, per quanto scarsi, e le pressioni internazionali, per quanto scarne, hanno alla fine imposto al regime birmano dove i generali dettano ancora legge?

Le autorità birmane intanto stanno mettendo i propri paletti. Il primo riguarda l’accoglienza per chi rientra (solo famiglie a quanto pare) che inizierà da un campo allestito nel Rakhine (lo Stato birmano da cui i rohingya sono scappati) in grado di ospitarne 30 mila. Il dubbio è se questi campi transitori possano o meno diventare delle «riserve indiane» dove parcheggiare indefinitamente gente che non ha documenti di identità e proprietà e per la quale sarà assai difficile stabilire dove e come viveva, sempre che il suo villaggio non sia stato dato alle fiamme.

Non è purtroppo un’illazione, dal momento che gli sfollati del «pogrom» del 2012, scatenato allora dalla fobia xenofoba e antimusulmana dei gruppi buddisti radicali, entrarono in campi da cui non è più uscito nessuno: circa 100mila persone. Adesso, che si tratta di oltre 600mila, che fine faranno? E che fine farà chi, uscito dal Bangladesh, entrerà nelle maglie strette della dogana birmana che dovrà vagliare caso per caso? Amnesty International ha spiegato, dopo un’inchiesta durata due anni, che i rohingya in Myanmar vivono intrappolati «in un sistema vizioso di discriminazione istituzionalizzata sponsorizzata dallo Stato che equivale all’apartheid».

In assenza di un’autorità di controllo internazionale super partes, il futuro del rimpatrio è dunque oscurato da nubi pesantissime e da interrogativi cui è difficile rispondere. Quei campi di transito si trasformeranno in riserve permanenti? E i rohingya se la sentiranno di tornare da un Paese che li ha cacciati a colpi di mitraglia?

Intanto le autorità birmane hanno mandato a Dacca una lista di 1.300 supposti aderenti all’Arakan Rohingya Salvation Army, il gruppo guerrigliero accusato di terrorismo da Naypyidaw, chiedendone al Bangladesh l’estradizione.