Il presidente Macron, in occasione della sua visita a quattro paesi alleati storici della Francia in Africa centrale, ha dichiarato che l’epoca della Franceafrique è finita (intendendo la conclusione di un’influenza parigina diretta nelle ex colonie), ma nelle sue Otto lezioni sull’Africa (edizioni e/o, pp. 192, euro 18) Alain Mabanckou svela i retroscena di pratiche opache e di tutta una rete di influenze ereditate dal colonialismo che de facto stabiliscono ancora gerarchie di potere e di valore imposte dall’alto, relegando erroneamente le letterature africane scritte nelle lingue europee a meri satelliti delle letterature e culture prodotte nel Vecchio Continente.

È CON LO SCOPO di correggere questa distorta percezione che il poeta e romanziere di origine congolese, oggi residente a Los Angeles, ha deciso di accettare nel 2016 la cattedra annuale di Creazione Artistica offertagli dal Collège de France. Oltre alle dissertazioni ivi impartite, la raccolta include la lettera aperta al presidente della Repubblica francese, con cui nel gennaio 2018 il nostro rifiutò al contrario l’invito a partecipare ad un progetto sulla francofonia, che a sua detta «porta in sé le connivenze con i dirigenti delle repubbliche delle banane che decapitano i sogni della gioventù africana».

Le otto lezioni qui riportate sfidano la riluttanza del centro metropolitano a prendere in considerazione le questioni legate alla storia della decolonizzazione e ad ascoltare le voci provenienti dalle periferie, colmando un precedente vuoto (e paiono proprio aver colto nel segno, se si considera che in occasione della prima, tenutasi il 17 marzo 2016 e trasmessa in diretta da Radio France Internationale, milletrecento persone erano stipate nell’anfiteatro Marguerite de Navarre di Parigi).

A differenza degli Usa, dove attualmente Mabanckou insegna Letteratura francofona all’Università della California, in Francia gli studi africani sono visti ancora con sospetto, considerati reazionari e demagogici rispetto a una gloriosa missione di civilizzazione, sostiene l’autore, e perciò suggerisce di percorrere questo ciclo come un «invito al dialogo e a una rilettura serena e cortese del nostro comune passato».

RIEVOCANDO LA PRESENZA a Parigi nel secolo scorso di intellettuali africani del calibro di Léopold Sédar Senghor, Aimé Césaire, Bernard Dadié, Cheikh Anta Diop, Amadou Hampâté Bâ e Leon-Gontran Damas, il saggio passa in rassegna progetti dirompenti come quello della Negritudine – punto di riferimento della presa di parola dei neri d’Africa facenti parte dello spazio francofono, soprattutto per contestare la politica francese di assimilazione che non lasciava spazio all’espressione del colonizzato – e il Congresso degli scrittori e degli artisti neri organizzato dalla rivista Présence Africaine alla Sorbona nel 1956, evidenziando come l’«orgoglio nero» abbia lottato per riabilitare ed esaltare l’Africa e tenere testa al discorso occidentale, riconnettendosi a movimenti internazionali come il Rinascimento di Harlem, portavoce dell’America nera, e il panafricanismo, sostenitore delle indipendenze nazionali nel continente.

CON UNA INCALZANTE quanto dotta e documentata carrellata sui principali temi della letteratura africana – dalla nostalgia per l’epoca precoloniale con elementi etnografici e storici al romanzo della mobilità e migrazione tipico di un continente disperso via mare da secoli di tratta schiavistica, dall’eccitazione effimera delle indipendenze negli anni Sessanta alla disillusione portata dai colpi di stato militari e la nascita dei regimi comunisti – le Otto lezioni africane respingono radicalmente il repertorio di stereotipi del romanzo coloniale e i canoni restrittivi imposti dalle lettere europee «nelle quali l’Africa era solo una comparsa muta, ridicolizzata, buona solo a scortare l’Europa nelle sue compagini più esotiche e a esprimersi solo per onomatopee», con la ferma convinzione che «il mondo di domani vedrà l’espressione di voci che finora non sono state prese in considerazione nel grande concerto delle civiltà, pezzi mancanti che permetteranno di definire il nostro umanesimo nella maniera più diversificata».