Purtroppo ormai sappiamo bene perché il maggior numero di decessi, in Italia e in Europa, si è registrato tra gli ottantenni, sappiamo come mai per un morto di Cov-Sars 2 in Oriente se ne contano ventiquattro in Occidente. I dati mostrano una stretta correlazione tra “istituzionalizzazione” degli over 80 e diffusività e letalità del contagio.

La metà degli anziani morti per il Covid 19 (oltre 40 mila in Italia) erano ospiti di Rsa. Ancora in questi giorni, in diverse residenze sono attivi dei focolai di contagio. Dopo un anno e periodiche ispezioni dei Nas, che hanno evidenziato lo stato di degrado e l’inidoneità di molte strutture, tutto continua come sempre.

Le Regioni hanno la responsabilità di non avere messo in piedi un sistema di accreditamento basato su requisiti e parametri di qualità. Mancano i controlli. Non si conosce nemmeno il numero esatto delle Rsa sul territorio. Numerose case di riposo (secondo alcune stime circa 700) operano senza autorizzazione e al di fuori delle convenzioni con gli enti locali. Nel silenzio e nell’indifferenza generale.

L’aspetto paradossale è che, nonostante le Rsa abbiano mostrato la loro inadeguatezza e non siano riuscite a salvaguardare gli ospiti, gli imprenditori del settore annunciano il raddoppio dell’offerta, puntando a realizzare 600 strutture residenziali rispetto alle attuali 300 (secondo stime approssimative). Il business della silver economy, basato sugli indici demografici e sulle leggi del mercato, promette bene. Ma è questa l’unica soluzione al problema dell’invecchiamento e della fragilità?

Per essere chiari, una riforma dell’assistenza, attualmente in discussione, che continui a ruotare intorno al “modello Rsa”, non è accettabile. Sarebbe l’affermazione definitiva dell’ideologia dello “scarto”. «Persone non più utili allo sforzo produttivo del paese» (Giovanni Toti). Come tali da “depositare” in una struttura protetta. Con il corollario di disumanità, di isolamento e, in alcuni casi, di vera e propria segregazione. L’istituzione Rsa è fallita, ma non se ne vuole prendere atto. Gli affari prima di tutto.

Un modello alternativo è a portata di mano. Basta rovesciare il rapporto tra casa (degli anziani) e Rsa: passare dalla centralità della Rsa alla centralità della casa. L’anziano lascia la sua casa perché, con l’avanzare dell’età perde autonomia, e quando diventa difficile vivere da solo avviene il ricovero. Si tratta però di un ripiego, un fatto che la stessa famiglia, spesso, vive come una sconfitta.

Una visione diversa del welfare locale consentirebbe alle persone anziane e disabili di non dover abbandonare la casa, organizzando in modo diverso i servizi socio-sanitari sul territorio e potenziandoli. Oggi l’assistenza domiciliare integrata (Adi) copre solo l’1 per cento delle persone anziane. Una percentuale scandalosa e, tra l’altro, contrassegnata da forti sperequazioni territoriali. Per mantenere gli over 80 (e quanti non sono autonomi) nella propria abitazione serve un continuum assistenziale.

Che significa portare i servizi a domicilio, adeguare ed adattare le case alle esigenze della terza e quarta età, dotarle di tecnologia domotica, di ausili di telemedicina e di telesoccorso. Promuovere infine servizi di supporto: pasti a domicilio, lavanderie, piccoli lavori di manutenzione. E il ricovero (in ospedale o in un centro di riabilitazione) dovrebbe essere considerato una cosa temporanea.

L’insieme di questi servizi rappresenterebbe una concreta alternativa alla istituzionalizzazione, dando impulso, tra l’altro, a nuovi posti di lavoro. Si potrebbero costituire cooperative o società per la gestione dei servizi di comunità, da un lato recuperando, previo appositi corsi di formazione e aggiornamento, il personale attualmente in servizio presso le Rsa, dall’altro, dando il giusto riconoscimento e dignità professionale al lavoro di cura delle badanti.

Affrontare in modo nuovo e giusto il problema dell’invecchiamento della popolazione implica il superamento dell’eccessiva frammentazione delle competenze e degli interventi. L’assistenza domiciliare è in capo ai comuni, i servizi socio-sanitari sono di competenza delle aziende sanitarie, gli assegni di accompagnamento sono erogati dall’Inps. Una riforma dell’assistenza deve incardinarsi invece su una governance unitaria. Il Pnrr è un’occasione da cogliere anche in questa chiave.