«Andavano col treno giù nel meridione/ per fare una grande manifestazione». Così la ballata di Giovanna Marini raccontava I treni per Reggio Calabria, come ha ricordato Tonino Perna su questo giornale.

Dal “ventidue d’ottobre del settantadue” sono passati 46 anni e sette mesi, e siamo di nuovo lì: ancora Reggio Calabria, ancora i lavoratori e il loro sindacato, ancora un’Italia che vorrebbero dividere e che bisogna unire. E ancora i nemici di allora: i fascisti del “boia chi molla” che tentarono con le bombe di fermare la marea operaia che scendeva lungo lo stivale e oggi rialzano la testa sotto l’ala protettrice di un ministro dell’interno amico; gli egoismi territoriali che blindano gli spazi anziché aprirli; le logiche dei primati e delle esclusioni decise dall’alto in contrapposizione a quelle della solidarietà e della condivisione costruite dal basso.

Avevamo chiesto, proprio sul manifesto con una lettera aperta a Maurizio Landini, un segnale forte contro la “secessione dei ricchi”. E salutiamo oggi questa risposta concreta, collettiva, partecipata, che ripropone lo spirito dei tempi in cui appunto si era capaci di vincere. E l’obbiettivo era “praticato” nelle forme stesse dell’azione e della mobilitazione. Non è poco. Il Sindacato, con il “gesto” di oggi, riempie un vuoto abissale lasciato dalla politica sul versante dell’opposizione. E si candida, di fatto, a un ruolo anomalo ma essenziale di resistenza contro le derive devastanti innescate dal governo: la disarticolazione territoriale, l’amplificazione delle diseguaglianze sociali riconfigurate in diseguaglianze territoriali, la liquidazione dei residui frammenti di welfare e di solidarietà sociale. Se il segnale di oggi dovesse replicarsi, e diventare discorso e linguaggio non occasionale, davvero potrebbero innescarsi i processi costituenti di quella coalizione sociale che Landini aveva auspicato in passato e che era stata travolta dal trionfo effimero di un degradato politicismo a trazione renziana. I frammenti, numerosi, coraggiosi, ma separati e dispersi, di un’Italia che resiste potrebbero trovare la trama di un disegno comune e da resistenti che sono diventare anche resilienti, riprendere forma ed energia di protagonisti politici e sociali.

Non possiamo però nasconderci le differenze tra ieri e oggi. Sarebbe insensato ignorare il peso di una sconfitta durissima dei soggetti sociali di allora e della mutazione, a tratti genetica, delle organizzazioni che li rappresentano o dovrebbero rappresentarli. Se i luoghi (e spesso i treni) sono gli stessi, il materiale umano che ne è trasportato è cambiato. Se allora i vagoni “che sembravano balconi” addobbati com’erano di striscioni e di bandiere rosse portavano dal Nord verso il Sud una moltitudine di operai fieri del proprio ruolo, e – diciamolo – della loro missione storica, i treni di oggi trasportano rivoli esangui di ciò che resta di una classe operaia scomposta, marginalizzata, spesso umiliata. Da regioni in cui il rosso delle bandiere di ieri è stato sostituito dal verde delle camicie di oggi. Le cronache operaie del nuovo millennio parlano – per tutto il Nord un tempo industriale, ormai – di un’inedita subalternità a un interclassismo gregario, di un tentativo di risarcimento della perdita di reddito e di status attraverso retoriche neo-etniche, individuazione di capri espiatori, invenzioni di primati usurpati. Né i Sindacati sono rimasti gli stessi, delegittimati da anni di compromessi al ribasso, appesantiti da un funzionariato pletorico e conservatore, spesso più preoccupato di preservare la burocratica funzione che non le ragioni dei propri rappresentati, nonché segnato da decenni di colonizzazione partitica. Per questo l’esperimento di oggi è importante, tanto quanto lo era stato quello del 1972. Se allora il sindacato vinse la battaglia dell’egemonia nazionale del lavoro, oggi può giocarsi cambiando a fondo se stesso, forse sul limite estremo della zona Cesarini, e partendo proprio dal Sud, una nuova, decisiva partita: una legittimazione del lavoro come catalizzatore del pulviscolo di energie sparse per la costruzione di una “massa critica” sufficiente a compensare e possibilmente rovesciare le tendenze al cupio dissolvi di un Paese che – sia pur per una breve stagione – era stato modello di una vigorosa vita sociale.