CasaPound ha tappezzato di manifesti il Carso triestino. Di notte, di nascosto, e proprio in occasione dell’anniversario della fucilazione di cinque antifascisti avvenuta il 15 dicembre 1941 al poligono di tiro di Opicina. «Né vittime né martiri. Terroristi» hanno scritto. La provocazione è enorme, l’ennesimo tentativo di riscrittura negazionista della storia che in queste contrade sta colpendo da anni con una violenza inusitata. Non poteva non trovare una risposta: popolare, di massa, determinata.

Alla cerimonia in ricordo degli antifascisti fucilati, domenica, intorno alla piccola lapide addossata al muro di mattoni rossi, le bandiere delle sezioni dell’Anpi e delle formazioni partigiane che quassù hanno combattuto, italiani sloveni e croati insieme. E una moltitudine di persone: centinaia, come non si erano mai viste negli anni precedenti, anziani con il berretto partigiano e giovani famiglie con i bambini.

Non stupisce che la presenza slovena sia particolarmente numerosa: già dall’annessione di queste terre all’Italia, dopo la prima guerra mondiale, la violenza snaturalizzatrice era stata implacabile. Con il fascismo poi… cambiati i cognomi e i nomi delle persone e dei luoghi, vietato l’uso della lingua materna non soltanto in pubblico ma addirittura in famiglia e in chiesa, intimidazioni e pestaggi per chi non si adeguava, fossero adulti o bambini. Trieste doveva apparire “italianissima” e qualunque altra identità cancellata. Così nel goriziano, in Carso e in Istria, le terre dell’ex litorale austriaco. Centinaia di circoli culturali, sportivi, assistenziali chiusi, quasi cinquecento scuole slovene e croate trasformate in scuole italiane, insegnanti e preti sostituiti da immigrati italiani di provata fede fascista. Gli sloveni furono quelli che pagarono il prezzo più alto ben prima dell’inizio della

Resistenza perché furono i primi che, per esistere, dovettero opporsi. È del 1930 la prima sentenza a Trieste del Tribunale Speciale per la Sicurezza dello Stato con la condanna a morte di quattro sloveni giustiziati, di nascosto, vicino a Basovizza.

Nei manifesti CasaPound richiama la sentenza di morte emessa dal Tribunale Speciale, per la seconda volta in trasferta a Trieste a reprimere gli oppositori: fossero comunisti, cattolici, demo-liberali o nazionalisti sloveni, tutti furono accomunati sotto la voce “terrorista”. Un processo farsa senza contraddittorio, senza prove, una finta istruttoria durata un anno che aveva visto diversi arrestati morire, impazzire, restare permanentemente invalidi per le sevizie subite. Cinque condanne a morte, quattro ergastoli, più di venti condanne a trent’anni di reclusione.

Tra i cinque fucilati al poligono di Opicina nel 1941, Pinko Tomažič eroe indiscusso per gli antifascisti del litorale giuliano tanto che il Coro Partigiano Triestino porta il suo nome.

«Ho 26 anni e amo la vita. Amo l’umanità, i bambini, la natura, il nostro Carso, i nostri monti e il mare. Ma proprio perché amo tutto ciò che mi circonda, offro senza alcun rimpianto la mia vita per il partito, per il futuro, per l’abolizione della servitù, per la cessazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, per la vittoria del comunismo».

Questo il testamento di Pinko, ben impresso nella memoria di quanti domenica sono accorsi per onorarlo. Quando il coro partigiano ha aperto la cerimonia con il suo dolcissimo omaggio alle vittime, le gole erano strette e parecchi occhi lucidi ma alla fine, intonando l’inno partigiano del litorale, centinaia di persone hanno voluto ripetere a testa alta «Mi smo tu!» (noi siamo qui) perché la storia non si riscrive finché il ricordo resta vivo.