Ridefinire il ruolo e risignificare la funzione della storia nello spazio pubblico rappresentano, nel vissuto della nostra modernità, le questioni centrali attorno a cui il sapere del tempo passato riacquista valore e senso nel rapporto con la società del presente. Strumenti indispensabili per questa «missione laica» sono da un lato la profondità della conoscenza e dall’altro la capacità di renderla compenetrante e diffusa in larghi settori della società.

Nel corso dei lunghi decenni di «rivoluzione passiva» che lo studio del passato, tanto in Italia quanto in Europa, ha subito in ragione dell’offensiva promossa dai gruppi sociali dirigenti, conservatori sul piano politico-culturale ed economico-sociale, la stessa concezione generale della storia è stata dapprima esposta all’irruzione del revisionismo strumentale non scientifico (nella fase successiva alla fine della Guerra Fredda) ed in ultimo sottoposta (nella fase della crisi globale iniziata nel 2008) alle scorrerie di un vero e proprio populismo storico.

IL CAMPO D’ELEZIONE della contesa storico-memoriale e di questo processo regressivo è stato certamente l’antifascismo, assalito da una operazione di contestazione di legittimità finalizzata a minarne il carattere di radice fondativa ed orizzonte valoriale non solo della Costituzione italiana ma anche del disegno dell’unità europea tracciato dal Manifesto di Ventotene.

Per queste ragioni il libro della storica Chiara Colombini, Anche i partigiani però (Laterza, collana Fact Checking, pp. 192, euro 14), si presenta come uno strumento fondamentale di conoscenza che nella battaglia culturale muove, parafrasando Gramsci, dalla «guerra di posizione» a quella «di movimento» ovvero non riducendosi alla sola difesa della Resistenza dalle vulgate antipartigiane, ma rappresentando e promuovendo l’orizzonte di senso intrinseco alla Lotta di Liberazione ed al suo disegno di rifondazione della società dopo lo sconvolgimento umano della guerra mondiale. «Una battaglia come questa – scrive l’autrice nella sua introduzione – merita di essere combattuta».

Il volume non solo pone «la Storia alla prova dei fatti», secondo l’obiettivo dichiarato in copertina, ma si assume, riuscendovi in modo convincente, la responsabilità di decostruire falsi e luoghi comuni antipartigiani ed antiresistenziali attraverso contenuti e conoscenze colte espresse al tempo stesso in una forma dialettica accessibile ed inclusiva.

COLOMBINI affronta in campo aperto i grandi temi posti dalla decisiva fase 1943-1945 rovesciando tutto lo spessore e la forza di un moto della storia come la Guerra di Liberazione sulle miserie degli attacchi pubblici portati tanto dai mass media quanto dalla classe politica nazionale. La «Scelta» partigiana di fare parte di un esercito politico volontario all’interno del quale vivono osmoticamente gli alti ideali e le umane paure; le speranze palingenetiche e gli errori del quotidiano; la socializzazione alla vita politica nelle bande e nelle brigate e la sperimentazione della convivenza nelle differenze e nelle difformità.

L’IDENTITÀ «UNA E TRINA» della Resistenza che si manifesta nella sua dimensione di Guerra di Liberazione Nazionale, ovvero di conflitto frontale contro gli occupanti nazisti; di Guerra civile, ovvero di conflitto trasversale alla società nazionale che contrappone italiani fascisti ad italiani antifascisti; di Guerra di classe che definisce un conflitto verticale dal basso verso l’alto che mobilita le classi popolari subalterne facendone un soggetto determinante della rifondazione repubblicana e della cittadinanza costituzionale.

La questione della violenza partigiana viene ricollocata dentro il nucleo dimensionale della Guerra totale e dunque all’interno della cornice dell’insurrezione nazionale, della liberazione del Paese e della catarsi che i significati del 25 aprile e delle settimane successive rappresentano nella storia d’Italia e nel segno di nuovo patto sociale stipulato sulla sconfitta del regime nazifascista come nemico della libertà, della democrazia e dell’umanità. É un atto fondante, come ogni fatto d’armi da cui derivi una nuova forma di Stato, e Colombini ne esplicita senza retorica gli elementi generali di fondo che non solo ne chiariscono entità numerica (10.000 fascisti giustiziati); arco temporale (primavera 1945); collocazione geografica (le quattro «capitali» della Resistenza, Genova, Torino, Bologna e Milano come principali teatri della violenza insurrezionale) ma soprattutto ne spiegano la natura profonda in un intreccio che interseca conflitto totale globale e nascita della guerriglia come risposta alla guerra ai civili; tramonto di un mondo coercitivo e dittatoriale ed alba di un’epoca nuova; misura individuale e collettiva posta di fronte a scenari epocali che segnano il passaggio tra lo stato di guerra e la natura della pace.

DI FRONTE a questi grandi temi l’autrice non solo è in grado di squadernare ragioni e significati propri di una studiosa ma di accompagnare chiunque legga all’interno della dimensione umana, politica, ideale e sociale dell’esperienza di quei venti mesi che chiudono i venti anni della dittatura. Lo fa per il tramite dell’intersezione delle ragioni della storia con le forme della grammatica partigiana e di quella letteratura sulla Resistenza che emerge forte nelle parole del partigiano «Milton», cui da voce Fenoglio in Una questione privata, che disegnano un immaginario intimo e collettivo che intreccia equilibri «instabili, delicati e fragili» – scrive l’autrice – ma esprime tutta la potenza di un ordine nuovo che nasce dalla solitudine della decisione presa da ogni singola donna e uomo che decide di intraprendere una lotta irregolare ed asimmetrica come la guerriglia. Indefinita, come il destino di chi l’abbraccia, tra la prospettiva della morte dell’oggi e la vita del domani.

«La guerra partigiana scoppiò – scrisse Calamandrei nel decennale della Liberazione – come una miracolosa esplosione. Lo storico che fra 100 anni studierà a distanza le vicende di questo periodo, narrerà la guerra di liberazione come una guerra che durò 25 anni e ricorderà che la sfida lanciata dagli squadristi nel 1920 fu raccolta e definitivamente stroncata dai partigiani nel 1945. E il 25 aprile finalmente i vecchi conti col fascismo furono saldati: e la partita conclusa per sempre».

LA COMPARAZIONE tra i significati di questi grandi temi e la minuta forma di chi li disconosce parrebbe impietosa. Tuttavia il populismo storico muove la propria azione dall’alto verso il basso attivando una meccanica di ricezione e «ritorno» presso l’opinione pubblica di forte impatto mediatico e diffusivo. Esso esplicita, di nuovo, il tratto «sovversivo» delle classi dirigenti italiane e l’uso politico della storia che lo contraddistingue si caratterizza come torsione della conoscenza utilizzata come forma di regolazione e controllo selettivo della memoria e del governo del presente.

PROPOSTO dai suoi animatori come espressione di novità e rottura antidogmatica della cosiddetta «storia ufficiale», il populismo storico ricava le proprie istanze dall’uso di consunti armamentari ideologici che il libro di Colombini smantella, ripristinando le ragioni della storia ed il senso della sua conoscenza. «Penso che la storia ti piace come piaceva a me quando avevo la tua età – scriveva dal carcere Gramsci al figlio Delio – perché riguarda gli uomini viventi, e tutto ciò che riguarda gli uomini in quanto si uniscono fra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi, non può non piacerti più di ogni altra cosa».