Quando comincia a parlare nell’aula semivuota di Montecitorio, il relatore Emanuele Fiano introduce la nuova legge elettorale partendo da un omaggio al presidente della Repubblica. Non il presidente in carica, ma l’«emerito» Giorgio Napolitano. La citazione – che è poi un elogio del compromesso, in questo caso del patto a quattro tra Pd, Forza Italia, Movimento 5 Stelle e Lega per modello finto tedesco – scivola sulla platea distratta come un già sentito: per tre anni la retorica renziana si è aggrappata alle sollecitazioni di Napolitano a fare le riforme, giustificando in tal modo ogni forzatura sulla Costituzione come sulla legge elettorale. E per tre anni Napolitano ha lasciato fare, anzi ha suggerito e coperto ogni strattone di Matteo Renzi. Da qualche tempo, però, non tollera più.

«In questo funambolico brusco passaggio dal modello francese al modello tedesco, potevamo risparmiarci il galoppo del parlamento nel fine settimana. Non c’era nessun motivo per farlo se non il retro pensiero che così si può premere per andare al voto a settembre», dice Napolitano intervenendo alla presentazione di un libro sull’Europa. E alza la voce quando attacca «questa nuova grande impresa di quattro partiti o quattro leader di partito che calcolano esattamente le proprie convenienze». Si sa che il presidente emerito ha sempre visto malissimo le elezioni anticipate. Quando emerito non era, e dal Quirinale regolava il corso della legislatura, riuscì a evitarle anche quando – nel 2010 e nel 2011 – sembravano inevitabili. Adesso il suo intervento in difesa della stabilità di governo, minacciata «senza neppure offrire motivazioni appena sostenibili», arriva a riempire il silenzio del suo successore sul Colle.

Napolitano, che difficilmente avrebbe fatto montare tanti ragionamenti pubblici sulla data del voto senza far sentire la voce del Quirinale, demolisce l’«abnorme patto extracostituzionale sulla data del voto» che è «quasi un corollario dell’accordo tra i partiti sulla nuova legge elettorale». Un legge che non gli piace per niente: «La governabilità si profila molto problematica». E se Mattarella tace, Napolitano non si fa scrupolo di evocarlo, come se non tutto fosse perduto per gli avversari del modello finto tedesco: «Si deve ancora pronunciare il parlamento e per le verifiche di costituzionalità il presidente della Repubblica in prima battuta e poi la Corte costituzionale». Richiamo non privo di valore per un ex presidente che ha quasi sempre fatto cadere nel vuoto gli appelli a non firmare le leggi, anche quando venivano da un fronte ampio di costituzionalisti – cosa che per la legge elettorale in via di approvazione non si può dire.

Non che siano del tutto assenti i rischi di incostituzionalità per l’originale modello italo-tedesco. Proposti anche nelle pregiudiziali firmate da Mdp e dalla galassia centrista che oggi pomeriggio apriranno in aula il ciclo di votazioni della legge (con l’obiettivo per i proponenti di approvare la legge entro venerdì). Alfano, ex ministro dell’interno, e avversario della legge con lo sbarramento al 5%, sostiene l’argomento della violazione degli articoli 56 e 57 della Costituzione, per l’ormai nota questione dei collegi disegnati con riferimento al Mattarellum, dunque non alla popolazione del 2011 (ultimo censimento) ma a quella del 2001. Anche Pd e soci vedono il problema e preparano una soluzione, almeno per il senato. Che passerà dai 112 collegi usciti dalla commissione ai cento che invece erano stati disegnati dalla commissione Alleva nel 2015 per il tramontato Italicum. L’aggiornamento, però, non fa che confermare il problema alla camera, dove adesso i collegi uninominali sono 232 (quelli calcolati per il senato nel 1993). La soluzione potrebbe passare per un’ulteriore riduzione a duecento e una divisione in due metà esatte dei collegi Italicum. Alla fine meno di un terzo dei parlamentari verrebbero così eletti nella parte uninominale.

Problema che si collega a quello dei cosiddetti «nominati», cioè i deputati e senatori scelti nelle liste bloccate. Forse una delle poche caratteristiche del modello tedesco rimasta intatta nella traduzione in italiano. I 5 Stelle hanno rinunciato alla (più volte proclamata) battaglia per le preferenze in commissione, per non incrinare l’accordo a quattro. Hanno però proposto un emendamento per l’aula, così come per l’introduzione (questa sì «tedesca») del doppio voto, anche disgiunto. Grillo invece ha già chiuso il discorso. Niente preferenze (che del resto al M5S non convengono), dice, «preferiamo una legge giusta per gli italiani». Legge che, gli scappa di dire, «non capisce più nessuno». Ma poi si corregge, in fondo è uno dei quattro padri della riforma: «È un tema complicato, ma stiamo dando al paese una legge finalmente costituzionale». E così Napolitano evoca l’incostituzionalità e Grillo fa il pompiere.