È necessario superare la logica dell’emergenza e quella dei campi. L’Arci lo sostiene da tempo e le vicende emerse in questi giorni a Roma ne sono una conferma.

La situazione di perenne emergenza è servita per giustificare l’ingresso di soggetti senza competenze nella rete d’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Sull’accoglienza, d’altra parte, abbiamo sempre sostenuto che bisogna valorizzare il ruolo dei comuni e delle comunità locali, sistemando i rifugiati in alloggi ‘normali’ e assegnando un compito di mediazione sociale alle organizzazioni del terzo settore. Organizzazioni che dovrebbero avere, come nel caso dello Sprar (strutture per richiedenti asilo e rifugiati), i requisiti di esperienza e competenza. Abbiamo criticato il fatto che, in nome dell’emergenza, non venisse verificata la qualità dei servizi offerti, la trasparenza nell’affidamento degli appalti e non venisse coinvolto il territorio. Sono stati nominati commissari straordinari, coinvolte protezione civile e prefetture, il cui scopo è stato quello di recuperare posti letto, per lo più con gare al massimo ribasso. Sono stati allestiti grandi centri per centinaia di persone, senza nessuna garanzia sulla qualità del servizio e nessuna forma di controllo.

Ci si è mossi cioè con una strategia opposta a quella della rete Sprar che gestisce migliaia di posti, certo non senza problemi, ma con una procedura trasparente, il coinvolgimento di enti locali e territorio, un monitoraggio costante.
E’ proprio la logica dei campi (dove per campi si intendono tutti quei luoghi di concentrazione e segregazione del disagio e della marginalità sociale) che consente, soprattutto se legata all’emergenza, anche lo scandalo della corruzione. Questo è però solo un aspetto del problema.

Nei campi si confinano le persone in spazi separati, si alimenta il disagio e il razzismo. Nei campi trova spazio lo sfruttamento, la violenza, a volte anche la criminalità, a spese spesso di chi vi vive. Paradossalmente le persone segregate sono viste da parte dell’opinione pubblica come profittatori, con un’inversione di ruoli che scarica su di loro le scelte di un sistema che non funziona. I ‘tumulti’ di Tor Sapienza, come si scopre ora e come il manifesto per primo ha denunciato, sono la testimonianza di come questi umori possano essere facilmente strumentalizzati.

Ma il paradosso è diventato in questi giorni il perno della strategia comunicativa di tanti politici e giornalisti.

Denunciare gli sprechi è sacrosanto. Bisogna però distinguere chi fa un buon lavoro da chi lucra sul disagio, evitando di evocare soluzioni che vanno nella direzione di cancellare i servizi o di privatizzarli. Il rischio vero non è solo che si butti via il bambino con l’acqua sporca (e a Roma l’acqua era propria sporca), ma che si facciano scelte, sempre in nome dell’emergenza, che produrranno ulteriori sprechi e corruzione.

Negli ultimi mesi è stata alimentata l’idea che bisogna tornare a una gestione centralizzata dei servizi. Che è meglio affidarsi al governo piuttosto che alle regioni e agli enti locali. Un’ipotesi che evidentemente contrasta con l’esigenza di trasparenza e controllo, e che favorirebbe un progressivo smantellamento dei servizi e una loro privatizzazione.

Bisognerebbe avviare subito invece un progressivo inserimento sociale dei rom, assegnandogli case e chiudendo i campi. Così come bisognerebbe distribuire i rifugiati in normali appartamenti, responsabilizzandoli sul loro percorso d’inserimento e puntando a un coinvolgimento reale del territorio, con i soggetti che in quelle comunità operano.

La corruzione è radicata nella nostra cultura. Per estirparla serve il controllo e il protagonismo dei cittadini e delle comunità locali, non il ritorno a uno stato centralista dove tutto è affidato ai prefetti.

*vicepresidente dell’Arci