Cosa hanno da dire i magistrati della riforma della giustizia penale tratteggiata nel contratto del «governo del cambiamento»? Libera com’è di parlare della politica, immune da vincoli di tipo disciplinare e da eventuali interdizioni del codice etico, la Magistratura dovrebbe dire a chiare lettere a tutti i cittadini, ovvero a quel popolo nel cui nome amministra la giustizia, se quella riforma interpreti i valori della Costituzione e del giusto processo, della dignità della persona, della presunzione di innocenza e della finalità rieducativa delle pene.

Non sarebbe certo la prima volta che la magistratura – da Tangentopoli in poi – nelle sue più disparate declinazioni, prende autorevolmente posizione su questioni inerenti la politica giudiziaria del Governo e del Parlamento. Il problema, infatti, non è questo. E’ che ci sembra piuttosto evidente che molti dei tratti che caratterizzano i capitoli dedicati alla giustizia penale del programma di riforma sottoscritto dai «contraenti», coincidano puntualmente con le esternazioni di alcuni noti magistrati che le hanno sapientemente propalate dagli apici della Corte di Cassazione o da pulpiti consegnati all’esito favorevole di processi clamorosi. Esternazioni rimbalzate sui media e diffusi fra i plausi della sponda populista.

Questa circostanza induce a formulare qualche riflessione che tenga insieme i bandoli di un intreccio fra magistratura e politica che sembra oramai insostenibilmente avvinto alla costituzione materiale di questo Paese. Ammesso che magistratura associata o Csm oggi intervengano criticamente, cosa avranno da dire delle posizioni giustizialiste del past President Davigo, delle sue bordate al processo accusatorio e al «codice spaventapasseri», della definizione degli innocenti come «colpevoli che l’hanno fatta franca», della necessità di introdurre l’utilizzo di agenti provocatori nelle amministrazioni e di altri strumenti investigativi e repressivi illiberali. Dove erano quando il dottore Di Matteo arringava le folle plaudenti delle forze emergenti propugnando le sue idee autoritarie del processo e della giustizia? Perché Ann e Csm esprimono all’unisono la convinta necessità di chiudere quelle porte girevoli fra magistratura e politica che rischiano di intaccare in radice l’immagine di indipendenza e di imparzialità della giustizia penale, e consentono invece che liberamente si eserciti una attività di propaganda politica con simili formidabili strumenti? Consentono che si faccia politica entrando ed uscendo dalle aule di giustizia, indossando e riponendo la toga e l’imparzialità che essa rappresenta come fossero degli optional irrilevanti per la credibilità dell’intero sistema?

Nessuno immagina che esista un mana, uno spirito magico che di volta in volta illumini di sé l’agire del «politico» separandolo da quello del «magistrato». Ovvio che nel mondo reale vi sia un indistinto brulicare e sovrapporsi di pulsioni. Sta però agli ordinamenti tener distinte quelle diverse passioni civili, e darsi nuove regole deontologiche.
Si può, infatti, anche tirare una linea dritta che regoli il «transito» fra Politica e Giustizia, come pure si legge nel «contratto del governo del cambiamento», ma si dovrebbe allora anche dire chiaramente che questo non basta se, da magistrati, ci si comporta ispirando le proprie condotte pubbliche a quelli che sono gli indicatori tipici e riconoscibili dell’agire politico.

L’equivoco va dunque finalmente chiarito, dicendo che se è vero che anche amministrando la giustizia in modo corretto si fa in qualche modo politica, non è affatto vero il contrario, e che cioè facendo politica si possa invece correttamente e plausibilmente amministrare la giustizia.

Se non si scioglie questo nodo si finisce con l’assecondare una ambigua legge morale produttiva di una deontologia impermeabile ai vincoli della ragione e sensibile invece ai cieli stellati che la sovrastano.

*Segretario dell’Unione camere penali italiane