Il «contratto per il governo del cambiamento» tra Lega e M5S ci conferma un antico sospetto: quando si parte con lo slogan né di destra né di sinistra si approda alla fine a destra.

Sta succedendo a Macron in Francia, accade ora in Italia. E non dobbiamo preoccuparci solo delle coperture.

Nel «contratto» c’è una pesante stretta macro e micro-securitaria dai migranti all’autodifesa, la flat tax e, persino come priorità, un regionalismo differenziato che in un paese già strutturalmente diviso meriterebbe quanto meno cautela.

Sono i temi cari alla Lega. Invece, manca il Sud, e solo l’ultima versione mette ipocritamente una toppa con un capitoletto in cui si definisce l’omissione come voluta.

Manca un progetto volto al superamento delle diseguaglianze crescenti, alla tutela di eguali diritti, al ritrovamento di una piena dignità del lavoro, alla costruzione di nuove speranze.

Il reddito di cittadinanza non basta certo a riempire il vuoto. Non si risponde alla domanda posta dai tanti voti che dal Pd, dalla sinistra e dal Sud si sono riversati su M5S perché insoddisfatti dei silenzi e delle subalternità del centrosinistra di governo.

Il merito del contratto conta più del metodo. Si è censurata la stipula di un accordo prima del conferimento dell’incarico, il balletto sui nomi, un comitato di conciliazione visto come novello politburo. Per una parte è vero che antiche formalità non sono state osservate, e che lo spettacolo ha avuto momenti di indecenza. Ma è anche vero che nella formazione dei governi il capo dello stato ha sempre avuto lo spazio a lui lasciato dalle forze politiche, e determinato anche dalla legge elettorale. Come è stato sempre vero che alle sedi istituzionali si sono affiancate sedi politiche variamente conformate (chi non ricorda i vertici di maggioranza?), e che le decisioni là assunte sono state poi tradotte in atti del governo e del parlamento.

Nel punto sulle riforme istituzionali del «contratto» una parte è condivisibile, come la previsione di leggi di revisione costituzionale su oggetti specifici, la soppressione del quorum strutturale per il referendum, o l’introduzione di quello propositivo.

Si potrebbe magari anche aggiungere per il referendum la semplificazione sulle firme, e l’anticipo del giudizio di ammissibilità della Corte costituzionale.

Una parte è scontata – come la riduzione del numero dei parlamentari o la soppressione del Cnel – o persino superflua, come il procedimento rinforzato sulle proposte di legge di iniziativa popolare, già presente nell’ultima modifica del regolamento senato.

Ma una parte pericolosa c’è, e va messa in luce. È la proposta di introdurre forme di mandato imperativo.

Diciamo subito che non è troppo qualificare il divieto previsto dall’articolo 67 della Costituzione come uno dei principi insuscettibili di revisione costituzionale.

La libertà del parlamentare nell’esercizio del mandato è uno dei pilastri dei parlamenti moderni, frutto di una evoluzione plurisecolare e tra i presidi essenziali del sistema democratico.

Quella libertà può costare un prezzo nel partito, non essere sanzionata nell’istituzione parlamento.

Nessuno vuole tra gli eletti personaggi degni solo della satira di Crozza, pronti a mettere le vele al vento cambiando casacca. Ma queste degenerazioni si correggono garantendo la qualità dei candidati, non mettendo bavagli dopo il voto.

Può essere accettabile nei regolamenti parlamentari un deterrente al cambio di gruppo. Ma bisogna garantire il voto di coscienza, il dissenso dal gruppo, la libertà di presentare proposte di legge, emendamenti, interrogazioni.

È inaccettabile qualsiasi ordine cogente, da chiunque provenga, e qualsiasi filtro autoritario che si traduca nella inammissibilità della iniziativa del singolo parlamentare.

Tradurre le decisioni del politburo in modo vincolante nell’istituzione parlamento sarebbe un attentato alla democrazia. Su questo si dovrà, se necessario, dare battaglia.

Bisogna essere cauti sul punto che una politica nuova richieda ineluttabilmente forme nuove.

Può finir male.

Nel Pd la novità dell’ultima assemblea è che le dimissioni di Renzi sono irrevocabili, ma non se ne prende atto. È come cavarsi un dente a rate. Non sarebbe meglio uno strappo deciso e poi, come si direbbe in una lingua che fu cara a Palazzo Chigi, move on?