Non è facile scrivere un libro sulla zoofilia, e non lo è neppure recensirlo. Mi avvicino dunque al tema con lo stesso miscuglio di audacia e cura con cui, senza infingimenti e andando dritta al punto, Joanna Bourke ne discute in Amare gli animali. Bestialità, zoofilia e amore postumano, uscito nella collana «Deviazioni» di Meltemi (pp. 207, euro 18, traduzione di Laura Matilde Mannino). Chi legga questo libro con l’intenzione di trovare una risposta morale resterà deluso. Da storica attenta ai fenomeni sociali, Bourke non ne fornisce una, ma di sicuro non va per il sottile nel mostrare le molteplici forme di sfruttamento animale così come i bias delle (relativamente poche) ricerche scientifiche sul tema, che nascono già fallaci perché basate su campioni perlopiù di ambito psichiatrico e carcerario.

POICHÉ LA CONCEZIONE di animalità, di sessualità, e così pure le relazioni interspecie sono fenomeni sociali, è alla pluralità di narrazioni e di contesti (in questo libro soprattutto statunitensi) che occorre guardare. Cioè sostituire la domanda morale con un interesse più aperto a modalità e prospettive (mai solo umane) di tali relazioni, che le definizioni appiattiscono sempre su intendimenti dominanti, impoverendone la complessità. A rischio che le rivendicazioni politiche antitetiche che hanno mosso il dibattito, come quelle di catto-conservatori e animalisti, si trovino malamente a convergere. Nei termini di cui comunemente ci serviamo, bestialità, zoofilia, zooerastia nelle loro diverse sfumature, la dicotomia umano-animale è perlopiù mantenuta. Le preoccupazioni principali sembrano sorgere laddove il problema è l’umano che varca il confine di umanità ritornando animale, piuttosto che l’eventualità che gli animali non umani siano partner possibili.

Se un dovere, morale e politico, abbiamo è quello di domandarci perché, se non per un diverso ordine biopolitico, gli innumerevoli – e tristemente ordinari – atti sessuali interspecie compiuti negli allevamenti industriali, dalla masturbazione alla inseminazione forzata degli animali «da reddito», non appaiono stupri, mentre gli stessi, se lo scopo non è economico ma libidico, appaiono devianti. Bourke insiste, e a ragione, sulla tendenza a presupporre un modello sessuale fallico-penetrativo nei dibattiti sul tema, che spiega ad esempio come la criminalizzazione della zoofilia replichi spesso quella della sodomia e del sesso non riproduttivo più in generale (risalente alla caccia alle streghe e alla condanna delle loro famiglie queer e multispecie), in prospettive in cui specismo, sessismo e razzismo s’intersecano: come nella vicenda di Linda Lovelace, costretta dal suo partner-manager a girare scene di sesso con il cane Norman, ma prima ancora nella ideologia schiavista ed eugenetista che presupponeva una promiscuità essenziale fra donne nere e primati nella scala dei viventi. Un elemento chiave è quello del consenso, non riducibile alla sola partecipazione fisica quale che sia, e che quando coinvolge esseri viventi non parlanti richiede una attenzione maggiore ad altre forme di comunicazione incorporata, non necessariamente incomprensibili. Ma è chiaro che questa comprensibilità, plausibile anche in conseguenza del mutato orizzonte epistemologico odierno non più umanista, si presta ad essere facilmente strumentalizzata, ancorché abusabile se guidata da un’asimmetria di potere (l’addestramento, l’addomesticamento) invece che da una responsabilità nel senso profondo del termine, che metta l’altro nella condizione di essere capace di rispondere, cioè di avere la libertà di farlo.

OGGI, che esistono numerose comunità online e dunque anche una maggiore circolazione di opinioni ed esperienze, il tabù della zoofilia deve fare i conti con una pluralità di vissuti che forniscono nuovi elementi al dibattito, utili se non altro ad allentare la morsa dello stigma, ma niente affatto risolutivi. Amore e sessualità, infatti, non sono riconducibili a un linguaggio unico, quello dell’identità e sulle identità, ed è sempre difficile argomentarne in modo convincente (cioè dimostrativo) e «proprio»: per l’amore e la sessualità non esistono prove. Eppure: la grammatica della gioia e della libertà funzionano allo stesso modo per tutti i soggetti di vita. Come facciamo a capirlo è l’interrogativo che ritorna con crescente insistenza nel libro di Bourke. Eppure, l’empatia non ha confini per definizione, perché non ne ha l’immaginazione, come dice anche Elizabeth Costello ne La vita degli animali di Coetzee. Una modesta proposta per considerare più da vicino la zoofilia, allora, è smettere di guardare ai termini della relazione e considerare, piuttosto, la relazione che fa i termini. Perché l’identità resta ancora il problema a causa del quale non sappiamo divenire con gli animali senza dominarli.