La lunga marcia dell’analisi costi benefici, nata negli Usa con Roosvelt negli anni della grande depressione, è giunta fino alla tunnel di base di Susa.

Ieri il ministero delle Infrastrutture ha pubblicato due documenti distinti, per certificare che il Tav è un buco nelle Alpi Cozie, ma sopratutto è una voragine nelle disastrate casse pubbliche che in tempi di austerità non possono permettersi avventurosi investimenti.

La prima parte dell’analisi costi benefici voluta dal Movimento 5 Stelle e imposta all’alleato leghista in virtù del «contratto di governo», fa un bilancio di cosa costerebbe la realizzazione dell’opera e dei suoi ricavi su scenari ipotetici.
FIRMATA DA CINQUE DOCENTI universitari di tendenza liberale, si sviluppa quasi priva di aggettivazione per 80 pagine. Priva di particolari introduzioni filosofico o storiche, entra in maniera tranchant nella questione – si tratta dello stile di Marco Ponti, insofferente a ogni retorica – mettendo in luce dati impietosi.

Il costo complessivo della sezione compresa tra Bussoleno, bassa val Susa, e Saint Jean de Maurienne è pari a 9,6 miliardi di cui il 35%, tre miliardi, in carico all’Italia: nonostante lo sviluppo di tale tratta incida prevalentemente sul territorio francese. Sommando a tale cifra 1,7 miliardi per la nuova tratta Susa– Orbassano, necessari per non rendere il tunnel un enorme imbuto la cui portata massima sarebbe quella della linea storica, si giunge a circa dodici miliardi.

Successivamente si passa ai flussi di traffico che dovrebbero sostenere l’opera. In una prima parte i cinque tecnici del ministero demoliscono tutte le passate proiezioni: opera per altro già iniziata con il precedente governo che dovette ammettere la fallacia dei conti prodotti negli anni passati. A compendio di un grafico piuttosto impressionante, scrivono: «Lo scostamento (delle previsioni, ndr) al 2017 è di circa il 17% per lo scenario più conservativo e del 36% rispetto per quello più ottimistico». Le curve che mettono in luce gli scarti tra ciò che fu previsto e ciò che è accaduto evidenziano milioni di tonnellate di merci che dovevano aumentare anno dopo anno, mentre sono rimaste sostanzialmente stabili.

I TONI SONO IMPLICITAMENTE accusatori laddove scrivono: «Nel 2000 si affermava che il progetto Torino-Lione non provoca praticamente nessuno spostamento modale, i 3,2 milioni di tonnellate supplementari in situazione di progetto provengono essenzialmente dagli spostamenti del traffico ferroviario dalla Svizzera verso la Francia». Traduzione: fin dal principio, perfino i proponenti sapevano che non si sarebbe spostato nulla lungo questo asse con il Tav. Idem per quanto riguarda i passeggeri: «Come si può leggere nel documento Cig (2000), anche per i passeggeri “il progetto Torino-Lione non produce praticamente effetti sulla ripartizione modale”» .

Marco Ponti e colleghi riportano anche i calcoli relativi all’analisi costi benefici del 2011, e analizzano il flusso autostradale inerente il tunnel del monte Bianco e quello del Frejus: qui, colpiscono duramente perché mettono in luce che se veramente si vuole spostare il traffico dalla gomma alla ferrovia non si raddoppia la galleria di quest’ultimo: «Nel 2019 è prevista l’apertura al traffico della seconda canna del traforo stradale del Fréjus con conseguente (più che) raddoppio della capacità complessiva che si attesterebbe intorno ai 30.000 veicoli, ossia sei volte il flusso medio giornaliero attuale».

La lettura non lascia mai alcun margine di dubbio, e l’intero documento a tratti illustra una situazione grottesca.
Si entra poi nella parte relativa ai benefici dell’opera: inesistenti. L’équipe parte dai dati dell’Osservatorio Tecnico diretto dal duo Virano – oggi presidente di Telt, la società che dovrebbe progettare e realizzare l’opera – e Foietta. Per questa scelta, l’analisi viene perfino criticata da una componente storica del mondo Notav, l’Associazione Pro Natura, che reputa quei dati fallaci, di parte, e anti storici.

A MAGGIOR RAGIONE l’esito dell’analisi risulta catastrofico. Nel primo scenario, in cui il traffico si moltiplica per 25 volte nell’arco di 40 anni, il saldo negativo del «Valore attuale netto economico» sarebbe pari a meno 8,7 miliardi di euro.

Nel secondo scenario, con flussi di traffico più realistici, sebbene sempre ottimisti, la perdita arriva a 7 miliardi. Prendendo in carico anche i vantaggi ambientali massimi, la cancellazione della tratta nazionale e della fantascientifica stazione internazionale di Susa, il dato migliore che il Tav può vantare è in ogni caso è pari a meno 5,7 miliardi di euro.
La seconda parte del documento pubblicato ieri dal ministero delle Infrastrutture afferisce alla parte giuridica, ed è redatta dall’Avvocato Pasquale Pucciarielo, Avvocatura generale dello Stato. Il costo massimo da sostenere da parte dello Stato italiano nel caso il Tav fosse cancellato è pari a 4,2 miliardi di euro, ma buona parte degli importi massimi sono «difficilmente raggiungibili». La combinazione del miglior scenario tecnico e il peggiore giuridico, lasciano sul campo 1,5 miliardi di euro.

La val Susa e le variegate componenti del movimento Notav ieri hanno amaramente gioito all’arrivo dei risultati della analisi costi-benefici.