«Questo Conte inizia ad allargarsi troppo», sbotta un dirigente pentastellato di primo piano a metà mattinata, poco prima che Giuseppe Conte riesca ad arrivare sul Colle con la lista dei ministri per mettere fine alla crisi. Prima del giuramento dei nuovi ministri stamattina, e dei voti di fiducia: quello facile, alla Camera, lunedì, quello più arduo, al Senato, il giorno dopo.

L’ULTIMO OSTACOLO non è un braccio di ferro tra i partiti della maggioranza ma la faida tra Conte e Luigi Di Maio per il sottosegretariato alla presidenza del consiglio. Il premier vuole un tecnico di palazzo Chigi, teme di essere controllato, sogna di poter occupare per intero il ponte di comando. La logica che segue trapelerà poco dopo, quando leggendo la lista dei ministri userà la formula «mi affiancheranno». Ma Luigi Di Maio a lasciare all’amicone tutto il potere non ci pensa proprio. S’impunta e Conte, nonostante il Pd dalla panchina parteggi per lui, deve arrendersi. Riccardo Fraccaro, vicinissimo al «capo politico», è sottosegretario.

Di Maio in persona occupa un posto di enorme prestigio, gli Esteri, ma di poco rilevo sulla politica interna e di pochissima visibilità. Rimedia distribuendo ai suoi i ministeri che più lo interessano. Oltre al sottosegretariato, c’è Nunzia Catalfo, prima ideatrice del Reddito di cittadinanza al Lavoro. Stefano Patuanelli pare condannato a restare a bocca asciutta. Invece all’ultimo momento col cerino spento in mano resta Nicola Morra e il fedelissimo del leader assume la responsabilità dello Sviluppo economico. All’Istruzione va Fioramonti, già viceministro gialloverde. Un altro fedelissimo, Spadafora, conquista le Politiche giovanili e lo sport. In teoria resterebbe la spina della poca visibilità, ma il risorto Di Maio recupererà in veste di leader di partito.

LA DISTRIBUZIONE dei dicasteri sembra seguire una logica subìta, o peggio accettata con gaudio, dal Pd. I ministeri sociali sono in mano ai 5 Stelle, quelli che implicano rapporti con i poteri, gli alti papaveri, le élites al Pd: l’Economia a Roberto Gualtieri, la Difesa al renziano Lorenzo Guerini, gli Affari europei a Vincenzo Amendola, le Infrastrutture alla ormai ex vicesegretaria Paola De Micheli. L’eccezione è la Sanità, che tocca come unico ministero a Leu, area Mdp-Art.1 con Roberto Speranza che supera all’ultimo momento Rossella Muroni che mirava all’Ambiente, dove invece rimane Costa. Il Pd assume però la responsabilità anche dell’Agricoltura con Teresa Bellanova, terza renziana in campo, e il Mezzogiorno va al giovane Giuseppe Provenzano, stimatissimo vicedirettore Svimez.

E’ una promessa: si vedrà sul campo se mantenuta o no.

LA VERA NOVITÀ di questo governo è il titolare dell’Economia. La decisione di affidare per la prima volta dopo anni il ministero più centrale e delicato a un politico e non a un tecnico connota il governo ed è una scommessa precisa: quella di poter intavolare con una Ue auspicabilmente diversa da quella precedente rapporti proficui sul piano della politica e non degli eterni conti. Gualtieri è certamente il più adatto a provarci. In Italia è poco noto, a Bruxelles e Strasburgo è vero l’opposto. Ha occupato una quantità di postazioni centrali inclusa la presidenza della commissione Bilancio nel Parlamento europeo. Ha rapporti diretti e cordiali con tutti, inclusa Angela Merkel e la prova si è avuta proprio ieri mattina. Nel dubbio che la nomina di un politico potesse incontrare ostacoli si è mossa direttamente Christine Lagarde, futura presidente della Bce: «Sarebbe un bene per l’Italia e per l’Europa». Le esitazioni del Colle in realtà erano già state superate la sera precedente, ma un pronunciamento così aperto da parte della presidente della Bce dice tutto sulla stima di cui gode il nuovo ministro nella Ue.

CI SONO ALTRI DUE ministeri nevralgici, gli Interni e, nel quadro delle difficili trattative sulle autonomie differenziate, gli Affari regionali. Al Viminale, come previsto, andrà l’ex prefetta di Milano Luciana Lamorgese, unico tecnico in squadra e proprio per il ministero che un tempo doveva per definizione e assioma essere guidato da un esponente della Politica. Dopo Matteo Salvini, Mattarella e Conte hanno ritenuto necessario raffreddare la postazione.

Buona parte della sterzata necessaria sulle politiche dell’immigrazione dipenderà da lei. Come prefetto si è distinta per l’immensa quantità di sgomberi ma anche per aver imposto la presenza degli immigrati nei quartieri che volevano rifiutarli. Spetterà a lei interpretare le norme sulla sicurezza con l’elasticità necessaria per disinnescarle. La formula trovata ieri mattina dalla riunione dei capigruppo di maggioranza, Leu inclusa, recita che i decreti dovranno essere riveduti «alla luce» degli appunti di Mattarella. Significa che non ci si limiterà a modificare quei due punti ma si partirà di lì per modificare più profondamente le leggi. Ma molto, anzi moltissimo, dipenderà dalla nuova ministra.

DISCUTIBILE È SENZA dubbio la decisione di affidare a Francesco Boccia, Pd, gli Affari regionali. Forse per sbrogliare una matassa che riguarda le principali regioni del Nord sarebbe stato più diplomatico un ministro proveniente dalla stessa zona del Paese.

Un capitolo fondamentale, di cui non si è parlato abbastanza, è l’editoria minacciata direttamente dal governo gialloverde. Ha provveduto il presidente della Repubblica, rivolgendosi a sorpresa ai giornalisti per lodare le trasmissioni in tv nei giorni della crisi. Un appiglio per dire forte e chiaro che la libertà di stampa non si tocca.