È uno Zingaretti a dir poco irritato quello che dopo giorni di freddezza e tensione incontra nel primo pomeriggio Giuseppe Conte. Al segretario del Pd, oltre alla lunga lista di rimproveri che muove ormai da settimane, non sono andate giù le veline partite da palazzo Chigi che dipingevano i dem come ostacolo e freno alle Semplificazioni. Il chiarimento c’è stato, fanno sapere al termine i poco amichevoli alleati. «La pensiamo allo stesso modo: bisogna correre», informa il premier. «Incontro positivo», conferma, più contenuto, il Pd.

Se ci si ferma ai toni, dicono la verità. L’incontro è finito meglio di come era cominciato. Ma se dalle parole si passa ai fatti il risultato rasenta lo zero. Sulle semplificazioni i distinguo sono rimasti tutti e non si tratta di uno scontro tra Conte e il Pd ma tra il premier e l’intera maggioranza. A insistere per tenere altissimo il tetto dei lavori delegati alla trattativa diretta e per reinserire una forma di condono, anche se attenuato, era stato in mattinata Conte. Non ha cambiato idea dopo l’incontro. Subito prima, anzi, aveva ribadito: «Dobbiamo osare. Non possiamo accettare il principio del non fare per pura delle infiltrazioni».

AL SEGRETARIO DEL PD che insisteva sull’urgenza di chiudere i famigerati dossier Autostrade, Alitalia ed ex Ilva, sottolineando il disastro che sarebbe arrivare a settembre con quei capitoli ancora aperti, Conte ha replicato sottoscrivendo in pieno. Certo che bisogna chiuderli! Infatti il governo sta già accelerando. Solo che le stesse frasi il premier le ha già ripetute numerose volte ma la quadra continua a sfuggire.

Casomai di fronti ribollenti se ne sono aperti altri: lo scostamento di bilancio necessario per il decreto Luglio, per esempio. Il Pd frena. Non è convinto di andare in deficit per altri 15 miliardi, che secondo le indiscrezioni del ministero dell’Economia potrebbero arrivare anche a 25, e soprattutto teme che al Senato manchi la maggioranza assoluta necessaria per approvare lo scostamento. Anche Conte è consapevole del rischio e si è affrettato ad afferrare l’appiglio offerto da Berlusconi, con la sua ipotesi di un governo destra-Pd senza i 5S. Non che si tratti di una possibilità realistica: è solo una mossa per segnalare la presenza azzurra in vista del possibile terremoto di settembre. Il premier accoglie comunque il segnale a braccia aperte: «Nell’opposizione Fi è la forza politica più responsabile e dialogante».

SE ALLE SPALLE NON ci fosse l’indisponibilità al dialogo dimostrata, per paura delle reazioni pentastellate, in occasione dei precedenti scostamenti di bilancio la strada sarebbe percorribile. Ora, conferma la capogruppo di Fi al Senato, Bernini, contare a scatola chiusa sul salvagente azzurro non è più possibile. In nome della prudenza il Pd insiste dunque per rinviare il pericoloso voto sullo scostamento di bilancio. Il problema è che senza quel voto non ci può essere dl e senza dl non si possono coprire le casse integrazione. L’ipotesi di un ennesimo e salvifico intervento europeo, sotto forma di prestito-ponte o accelerazione dei fondi del Sure, appare poco praticabile. La ben poco simpatica intervista con cui il premier olandese Rutte ha spiegato che «la prossima volta l’Italia dovrà essere in grado di fare da sola» è un segnale chiaro ma, anche se nessuno al governo lo ammette, un ostacolo in più è costituito dal caso Mes.

SU QUESTO PUNTO il premier la ha spuntata. «Quando avremo completato il negoziato europeo formuleremo tutte le valutazioni in trasparenza». Se ne riparla in settembre, anzi in ottobre. Lo stesso Pd si è acconciato a considerare il rinvio come inevitabile ma anche questo non è facile. Se, come deciso da Conte e Gualtieri, la risoluzione di maggioranza prima del vertice del 17 luglio non nominerà proprio il possibile prestito, quasi certamente verrà presentata una mozione specifica in merito e la spaccatura della maggioranza sarà inevitabile. Per aggirare l’ostacolo, la risoluzione di maggioranza dovrebbe contenere un accenno alla decisione da prendersi solo alla fine del percorso del Recovery Fund. In questo caso, però, a imbizzarrirsi sarebbero i 5S, che vogliono una parola chiara e definitivamente negativa dal governo.

La lista dei sospesi, come si vede, è lunga. La nota più dolente è il dubbio che un governo così paralizzato sia in grado di gestire i fondi del Recovery. Perché tutto può essere rinviato o aggirato, ma sbagliare lì sarebbe un passo senza ritorno.