Certe volte a un premier piacerebbe disporre di una maggioranza. Sicuramente avrebbe fatto piacere a Giuseppe Conte ieri. Arriva al Senato per riferire sul cosidetto Russiagate, alle 16.30, con nelle orecchie ancora gli applausi scroscianti che la Lega gli ha tributato alla Camera, nel question time sulla Tav, e i mugugni di un M5S inferocito con il premier.

COMPITO SGRADITO quello di Conte. Deve riferire su un affare di cui non sa niente e che non lo riguarda, la tangente che Savoini ha cercato di contrattare con i russi a favore della Lega ma chi può dire se su mandato di qualcuno o di sua iniziativa? Di fatto deve difendere Salvini, che però se ne frega della cortesia e non si presenta. Nessuna sorpresa. Il premier e il vice si erano incrociati nei corridoi del Cipe qualche ora prima, si erano scambiati qualche parola e comunque la decisione del ministro degli Interni era già nota.

QUEL CHE INVECE CONTE proprio non si aspettava è l’esodo in massa dei senatori 5S appena lo vedono in aula. Ne restano pochi, e se ne andranno anche loro quando, negli interventi, prenderà la parola il leghista Romeo. I pentastellati, forse, non sanno neppure loro perché protestano. Giarrusso assicura che è per la Tav e che il dissenso non si fermerà certo qui. La Taverna, interrogata da un giornalista, spalanca le braccia: chi lo sa? Più tardi i pentastellati decideranno di raccontare che è una protesta per l’assenza di Salvini. “Rispettiamo Conte ma non era lui che doveva presentarsi qui oggi”, assicurerà il capogruppo Patuanelli. Spiegazione claudicante che non soddisfa affatto Conte. All’uscita dal rodeo investe il capogruppo e lo strapazza di brutta. “Io mi coordino con Di Maio”, si giustificherà poi il bistrattato. Come dire che l’ordine è partito dal “leader politico”. Conte, insomma, se la prendesse con lui.

IL DISCORSO DEL PREMIER è esattamente quello che ci si aspettava, una difesa di Salvini a tutto campo forse appena un po’ più estrema del previsto. Una puntura di spillo: “Salvini non mi ha fornito informazioni”. Un’allusione indiretta: l’esordio è tutto un omaggio al Parlamento e, in controluce, appare nitida la critica a chi il Parlamento non rispetta, cioè il ministro latitante. Ma la polemica si ferma qui. Per il resto Conte è netto. Controllato a vista dalla ministra leghista e avvocatessa Bongiorno, ripete alla lettera la versione di Salvini. Senza avanzare dubbi, senza porre domande. Savoini non ha mai avuto incarichi. Era alla cena del 4 luglio con Putin come tutti quelli che avevano partecipato al Forum del pomeriggio, al quale era stato invitato su richiesta del consigliere di Salvini D’Amico, in veste di presidente dell’associazione Lombardia-Russia. Non c’è mai stato alcun tentativo di spingere il governo verso posizioni filorusse. Lui stesso, con il ministro Moavero è garante della politica estera. Conclusione secca: “Non ci sono elementi per incrinare la fiducia con nessun membro del governo”. Certo d’ora in poi si vigilerà perché agli incontri ufficiali “siano presenti solo persone accreditate, tenute al vincolo di segretezza”.

IL SOLO PASSAGGIO DI RILIEVO, in quella che per tutto il resto è solo una abile ma piatta difesa d’ufficio, è all’inizio dell’intervento, quando Conte promette di rispettare il Parlamento presentandosi in aula anche se ci fosse una crisi di governo. E’ una minaccia aperta rivolta a Salvini, quella di “parlamentarizzare” l’eventuale crisi aprendo così a una possibile maggioranza alternativa. Il messaggio non sfugge al leghista che reagisce malissimo: “Se c’è un governo è questo e va avanti solo con i sì, non recuperando qualche Scilipoti. Se qualcuno pensa di andare avanti con giochetti di palazzo ha sbagliato persona, ministro, partito e Paese”. In tre giorni Salvini ha portato a casa la Tav, la fiducia sul dl Sicurezza, la difesa senza ombre da parte di Conte. Si sente fortissimo. Bastona. La replica, molto piccata, è affidata a una nota di palazzo Chigi. Il premier ha solo impugnato “le regole elementari di trasparenza che caraterizzano una democrazia parlamentare”.

DI MAIO ARRANCA: “La nostra assenza dall’aula è stata un atto politico. Siamo coerenti: porteremo la richiesta di non ratificare il trattato con la Francia sulla Tav in aula”. Nessuna crisi però, perché vorrebbe dire “darla vinta ai partiti che farebbero un governo tecnico”. Come si possa fare un governo tecnico senza i voti dei 5S non lo dice. Sarebbe in effetti una missione impossibile.

LO STATO DELLE COSE è quello illustrato meglio di come non si potrebbe dalla giornata di ieri: al governo ci sono tre soci, ciascuno dei quali detesta gli altri due e cercherà d’ora in poi di sgambettarli in ogni occasione. Il governo cercherà di andare avanti poggiando su questa formula, inedita e un po’ assurda: l’equilibrio del rancore.