«Una procedura d’infrazione ci farebbe molto male» ha detto Conte ieri in conferenza stampa. È la prima volta che, pur solo come ipotesi, qualcuno in un governo allo sbando paventi la possibilità per cui domani la Commissione Ue decida in questo senso. Più che la multa, si temono le conseguenze politiche. E, ancora di più, l’avvertimento: il negoziato dei prossimi mesi, pur con una Commissione in scadenza il prossimo 31 ottobre.

Mentre a palazzo chigi Conte dava i penultimatum ai referenti politici Salvini e Di Maio, ieri a Bruxelles i capi di gabinetto dei commissari economici hanno analizzato il rapporto sul debito italiano. Potrebbe essere questo un passaggio preliminare alla procedura temuta da Conte. Tra un paio di settimane dovrà arrivare il responso dei ministri economici riuniti nell’Ecofin. E questo nonostante il fatto che ieri, dopo i complotti denunciati dal ministro dell’economia Tria in un esposto alla procura di Roma, è finalmente arrivata in Belgio la lettera di risposta alla Commissione sullo sforamento delle regole del Fiscal Compact sul debito.

Sembra che il famoso testo non abbia convinto sul punto, né prospetti un impegno a una correzione dei conti. Il commissario agli affari economici Pierre Moscovici aveva sostenuto la necessità di una «manovra correttiva». Richiesta respinta da Roma.

Per la commissione Ue il debito pubblico italiano salirà al 133,7% quest’anno e al 135,2% nel 2020. La crescita è data a +0,1% nel 2019 e 0,7% il prossimo anno. Aumenta il deficit: al 2,5% nel 2019 e al 3,5% nel 2020. Su questo punto il ministro Tria ha sostenuto che il deficit quest’anno sarà al 2,4% del Pil (per la Commissione è al 2,5%) e che, grazie ai «risparmi» ottenuti dal cosiddetto «reddito di cittadinanza» e da «quota 100», il risultato finale del disavanzo sarà inferiore rispetto alle stime di Bruxelles. Questa ipotesi, avanzata dal fronte leghista nelle ultime settimane, contrasta con quella dei Cinque Stelle che invece si sono sbracciati per indicare l’investimento di «un miliardo di euro» a favore delle «famiglie» e del «ceto medio». Il disavanzo doveva essere tagliato almeno dello 0,4% e invece è peggiorato dello 0,3%.

Per la Commissione manca all’appello uno 0,7% del Pil e, al netto di interventi eccezionali (il Ponte Morandi a Genova, ad esempio) si arriva a 0,6%. Si parla di circa 11 miliardi da recuperare, oltre ai 23 previsti per «sterilizzare» le clausole Iva. Tutto questo al netto della «flat tax» (12-15 miliardi) sulla quale Salvini dice di essere pronto alla crociata. Al momento non può che essere finanziata in deficit. Ipotesi che contrasterebbe con le intenzioni di via XX settembre. E con quelle esposte ieri da Conte che, riprendendo un’indicazione giunta dal governatore di Bankitalia Ignazio Visco, ieri ha detto: «Dobbiamo realizzare una più organica riforma del fisco, non la intendo solo limitata alla rimodulazione delle aliquote ma estesa a una relazione più equa e trasparente». Il contrario di quanto, fino ad oggi, ha sostenuto Salvini.

Al di là del can can dell’ultima settimana, ieri Salvini ha fatto intendere che, alla fine, la carica verso il 3 per cento del deficit può anche rallentare. «Non faccio numeri che altrimenti poi… è il principio quello che conta» ha detto all’inaugurazione della Pedemontana veneta. Se non è una ritrattazione, è comunque una reinvenzione di quella scienza triste dell’economia che soffoca il varietà dei populisti. «Noi rimettiamo al centro non il 3% ma il tasso di disoccupazione. Dal 10% lo voglio portare al 5%, poi quando saremo al 5 rispettiamo tutti i vincoli del mondo» ha aggiunto Salvini. Secondo l’Istat nel 2019 la disoccupazione aumenterà invece al 10,8 per cento.

Salvini continua ad evocare la remota possibilità che, dopo il voto delle europee, lui riuscirà a cambiare questi parametri. E a reinventare i parametri della macro-economia. Oltre che gli esiti del voto che non è esattamente quello che auspica. «Dobbiamo fare una politica espansiva tenendo in ordine i conti – ha detto il più realista Conte – non solo per gli equilibri di finanza pubblica che vengono da regole europee che rimangono in vigore fin quando non riusciamo a cambiarle, ma anche per non tradire la fiducia degli investitori». Da una giornata di penosa confusione è così riemersa la ricetta dell’«austerità espansiva». L’ultima illusione di un governo, prigioniero dei suoi paradossi.