Al momento del voto di fiducia sul dl Covid alla Camera, ieri pomeriggio, sono mancati all’appello 28 voti del M5S. Un buco che molti hanno interpretato come reazione alla decisione di abbattere l’emendamento firmato da 50 deputati pentastellati che mirava a cancellare la modifica della legge del 2007 sui servizi segreti. L’ufficio stampa del Movimento assicura però che si tratta nella stragrande maggioranza di assenze giustificate. I ribelli sarebbero solo 7. Tra questi non figura la prima firmataria dell’emendamento, Federica Dieni, che si è piegata alla disciplina di partito pur confermando sia il dissenso dalla norma che l’«amarezza».

La vicenda ha peraltro innescato un valzer di sospetti. Secondo palazzo Chigi, la norma non modifica il tetto fissato nel 2007 per la permanenza al vertice dei servizi. Si limita a introdurre la facoltà di prorogare gli incarichi «per tranches» invece che per l’intero quadriennio, espediente peraltro motivato dalla necessità di aggirare le opposizioni interne alla maggioranza alla conferma di Gennaro Vecchione alla direzione del Dis. Il dubbio che a orchestrare la manovra fosse stato Di Maio, sulla cui lealtà a Conte nessuno metterebbe la mano sul fuoco, circolava ampiamente anche negli ambienti più vicini a Conte. Palazzo Chigi si è quindi sentito in obbligo, ieri mattina, di definire «totalmente prive di fondamento» le ricostruzioni che parlavano dei sospetti nei confronti del ministro degli Esteri. Il quale, dal canto suo, ha ribadito «piena fiducia nel premier e nei vertici dell’intelligence», negando ogni suo intervento sull’emendamento «deciso dai parlamentari».

La resa di Federica Dieni, accompagnata alle cerimoniose smentite, dovrebbe chiudere l’incidente. Non è così, e non solo perché il braccio di ferro sui vertici dei servizi è destinato a proseguire. Soprattutto perché il cuore della questione di Montecitorio è la decisione del governo di aggirare il parlamento, sia con l’espediente di inserire nel dl Covid una norma che con il virus non ha nulla a che fare sia e soprattutto per la forzatura di una fiducia chiesta dal governo, senza neppure preoccuparsi di convocare il cdm per l’autorizzazione, di fatto contro la maggioranza.

E’ una ferita aperta da tempo e che, pur senza mai arrivare a un fronteggiamento così clamoroso, tutte le forze di maggioranza hanno denunciato negli ultimi mesi. Conte dovrà decidersi a sciogliere questo nodo. Il gioco a rimpiattino con il parlamento non può durare in eterno. Del resto l’esperienza del dl Semplificazioni, forse quello che aveva destato maggiore irritazione nella maggioranza proprio perché impostato da palazzo Chigi senza consultare nessuno, conferma che i passaggi parlamentari sono necessari per migliorare i provvedimenti.

Oggi il decreto è in aula al Senato. Il sofferto accordo è arrivato all’alba di ieri. Verrà votato domani con la fiducia, in modo da arrivare l’8 alla Camera ed essere approvato l’11 settembre. Il testo che arriva al voto è in molti punti diverso da quello iniziale. La capogruppo di LeU Loredana De Petris, che era stata tra le più severe nelle critiche, si dichiara almeno parzialmente soddisfatta: «Il decreto è stato sensibilmente migliorato. Le deroghe, però, non sono lo strumento giusto per la ripresa. Serve un grande piano nazionale di assunzione di personale qualificato».

Le modifiche dovrebbero riguardare alcuni dei nodi essenziali: il rispetto dei vincoli di impatto ambientale, i limiti alla ristrutturazione edilizia nei centri storici, l’incentivazione delle energie alternative, gli appalti “liberalizzati”, con l’abbassamento del tetto per l’affidamento diretto inizialmente fissato a 150mila euro e di quello per la gara limitata a sole 5 imprese. Ma una valutazione sarà possibile solo dopo la presentazione del testo definitivo.