Nella caotica notte dei rimproveri e dei rinfacciamenti, delle accuse e delle minacce, a uscire vincente dalla sfida sulla norma Salva Roma è stato Matteo Salvini. Nel pomeriggio una scarna nota del ministero dell’Economia chiarisce che dal provvedimento è stato asportato il cuore: il passaggio al Tesoro delle obbligazioni del Comune per 1,4 miliardi, che lievitano a circa 3,5 con gli interessi. Il braccio di ferro era tutto su quel punto perché sono proprio gli interessi su quelle obbligazioni a mettere la Capitale a rischio di crisi di liquidità nel giro di un paio d’anni.

L’aspetto paradossale, ma già di per sé eloquente, è che il ministero, pur senza nominarla, chiariva la confusione indotta non da un ministro qualsiasi ma proprio dalla viceministra dell’Economia Laura Castelli, che sino a quel momento aveva ripetuto, alla faccia dell’evidenza e delle dichiarazioni ufficiali dei colleghi, che non c’era nessuno stralcio.

DUNQUE IL BRACCIO DI FERRO si è concluso, dopo la notte di tregenda, a favore della Lega. Ma ci sono vittorie che rischiano di costare più di una sconfitta e, per diversi motivi, potrebbe essere questo il caso. La «nuova» Lega nazionale di Salvini è dovuta tornare indietro, ai tempi degli strali contro «Roma ladrona», probabilmente per timore di perdere una parte dell’elettorato nordico che dei 5 Stelle non ne può più e che guarda al sodo, agli investimenti e agli sgravi, non alle campagne sull’immigrazione.

E il peggio è che Salvini ha preso di mira proprio quella Capitale che mirava a conquistare e dove le quotazioni del Carroccio non si avvantaggeranno certo del mancato salvataggio. In secondo luogo l’aver bloccato un provvedimento a costo zero nel peggiore dei casi e che avrebbe permesso qualche risparmio ai contribuenti nel migliore non è mossa facilmente spiegabile. Sui social la stessa base leghista appare smarrita e poco convinta.
Infine il Salva Roma potrebbe segnare il primo voto parlamentare con i soci di maggioranza su posizioni contrapposte e sarebbe davvero il segno tangibile della fine.

La sindaca Virginia Raggi si dice ora certa che «il Parlamento riuscirà a correggere» la situazione. Ci sono tutti gli estremi perché vada proprio così. Il decreto sarà in aula dopo le elezioni europee e a quel punto, sia pure con mille distinguo e bersagliando la sindaca, come fa il forzista romano Maurizio Gasparri, è probabile che si saldi un fronte trasversale favorevole alla reintroduzione dell’intera norma.

STAVOLTA, INSOMMA, Salvini sembra non essersi mosso con la lucidità che aveva dimostrato sempre dal giorno delle elezioni in poi. Il motivo dell’improvviso e poco comprensibile irrigidimento su una norma che appena 20 giorni fa aveva incassato il “passi” leghista è chiaro e lo confessano a porte chiuse gli stessi dirigenti del Carroccio: è la risposta agli attacchi di Luigi Di Maio sul caso del sottosegretario leghista indagato, Armando Siri. «Fino a una settimana fa – ammette uno dei principali capi leghisti – eravamo convinti che dopo le europee si sarebbe andati avanti di certo. Ma come si fa quando ti accusano di essere mafioso? Bisognerebbe che Di Maio la finisse subito».

Di Maio però non ha alcuna intenzione di finirla. Vuole la testa di Armando Siri e la vuole in tempo utile per sventolarla nell’ultimo scorcio di campagna elettorale: «Se non allontanano Siri comincio e preoccuparmi. Noi di passi indietro sulla legalità non ne faremo mai. Garantismo non è paraculismo e se Siri non lascia lo accompagniamo noi fuori dalla porta». A decidere in realtà sarà il premier Giuseppe Conte, che ieri ha parlato con Siri al telefono, lo incontrerà nei prossimi giorni e promette di adoperare «un approccio da giurista: lo ascolterò e poi deciderò». Nessuna decisione, giura il presidente del consiglio, è ancora stata presa. Ma con simili pressioni da parte dei 5 Stelle è difficile che non opti per il pollice verso.

Salvini lo percepisce e mette le mani avanti. Prima sbotta su quell’accostamento alla mafia che manda letteralmente i leghisti fuori di testa: «Chi parla della Lega deve sciacquarsi la bocca e non parlare di mafia». Poi anticipa il possibile rifiuto del verdetto che sarà pronunciato dal premier: «Né io né Conte siamo giudici e io aspetto la magistratura». Dovrebbe voler dire che la Lega non accetterebbe una decisione negativa di Conte su Siri. Ma l’unico modo per farlo sarebbe aprire la crisi di governo e le fonti del ministero degli Interni comprensibilmente frenano: «Piano, piano. Bisognerà vedere». Di certo tra spaccatura in aula sul Salva Roma e duello all’arma bianca su Siri di fuochi artificiali, nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, se ne vedranno parecchi.