Parlare di «momento della verità» quando c’è di mezzo il M5S di Conte ha il sapore di una burla. Dopo ogni scadenza ne spunta subito un’altra, senza che il leader riesca a prendere una decisione strategica.

Dopo lo “psicodramma con incontro” della settimana scorsa la nuova suspense arriverà al culmine alla fine di questa settimana, quando sarà il turno del Senato di votare con la fiducia il dl Aiuti.

In questo caso il punto interrogativo è doppio: al «cosa farà Giuseppi» si accosta il «cosa faranno i sempre più delusi senatori contiani».

Almeno nella sua mente e almeno per qualche settimana le intenzioni dell’ex premier sono già precise.

Nel colloquio con Draghi ha ottenuto la promessa di un impegno a stanziare subito 3 miliardi per il Superbonus, necessari per riavviare la cessione del credito al momento bloccata.

A Draghi l’apparente cedimento costa ben poco: risolvere il rebus della cessione del credito è un imperativo anche per lui e lo sarebbe comunque, anche senza gli strepiti dei 5S e della Lega.

Secondo la tabella di marcia messa a punto nell’incontro, Draghi dovrebbe annunciare lo stanziamento martedì, in tempo per consentire a Conte di riunire i parlamentari, cantare vittoria e invitare a votare la fiducia stavolta, in attesa delle risposte del premier ai suoi nove punti.

Con i senatori sarà dura e quasi certamente almeno una decina di loro diserterà l’aula. Senza il «segnale» di Draghi la cifra dei dissidenti lieviterebbe.

Conte, fosse per lui, sarebbe titubante anche nel disgraziato caso del «segnale» mancante. Nei giorni scorsi ha confessato agli intimi il timore che più di ogni altra considerazione lo frena: ledere irrimediabilmente l’immagine di statista responsabile che ritiene di aver costruito in questi anni, perdere così il voto dei moderati. Non è una paura incomprensibile né infondata. Però non è che il tira e molla sortisca effetti migliori su quella fascia di elettorato.

Tanto più che l’«avvocato del popolo» progetta comunque di uscire dal governo. Ma a settembre, cogliendo come occasione qualche passaggio della legge di bilancio che possa essere accusato di non rispondere con sufficiente solerzia alle sofferenze della popolazione.

A quel punto Conte forzerebbe la mano per inserire il suo nome nel logo di partito (Grillo permettendo), convinto di essere così in grado di affrontare le urne raggiungendo almeno il 10%.

Sono probabilmente castelli in aria. Settembre è lontano e con i ritmi accelerati di quest’epoca, sia sullo scenario mondiale che su quello italiano, prevedere oggi quel che dovrebbe essere fatto tra due mesi e passa è un esercizio sterile.

L’intero quadro potrebbe presentarsi infatti stravolto. Tra le ansie che più attanagliano i 5S che vorrebbero la rottura subito, ad esempio, c’è la possibilità che, di rinvio in rinvio, sia la Lega a strappare per prima, legando così le mani ai pentastellati. È un’ipotesi remota: i governisti nel Carroccio sono più forti che in quel che resta dei 5S e sulla rottura traumatica Salvini è ancor meno convinto di Conte, il che è tutto dire.

Se poi l’ipotesi di riforma elettorale dovesse andare oltre la chiacchiera a cui per il momento si riduce, l’alzata di testa di Conte diventerebbe più che mai improbabile.

Comunque è intorno alla fedeltà al governo che si ridisegnerà lo scenario della politica in vista delle elezioni, e non solo per quanto riguarda i rapporti tra Pd e M5S.

Ieri la ministra azzurra Carfagna si è presentata alla convention di Toti, con aperta sfida al Cavaliere e al suo avvertimento: «Il centro siamo noi di Fi».

Dal palco la ministra ha giurato che lei non potrebbe mai allearsi con chi facesse cadere Draghi.

Un messaggio a Salvini, certo, ma ancor più a quel caotico centro verso il quale Carfagna guarda da mesi, anzi da anni, senza mai osare un passo fuori dal sicuro recinto di casa, ad Arcore.