Nelle dodici regioni «arancione» è vietato pranzare al ristorante, perché togliersi la mascherina al chiuso in luoghi affollati è ritenuto pericoloso. Ma in un’aula scolastica, dove a causa degli orari scaglionati docenti e alunni delle scuole superiori rimangono fino al pomeriggio, si può fare. È una delle tante contraddizioni tra cui si devono arrangiare presidi, docenti e studenti delle nostre scuole, cercando di capire se la loro scuola è sicura. In materia, le opinioni degli esperti sono variegate, perché un’indagine specifica ed esaustiva, più volte promessa dagli scienziati del Cts e dal ministero dell’Istruzione, non è mai stata realizzata. Sulla base della letteratura scientifica esistente, raccolta per lo più all’estero, il 30 dicembre 2020 l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) ha pubblicato un rapporto in cui si legge «allo stato attuale delle conoscenze le scuole sembrano essere ambienti relativamente sicuri, purché si continui ad adottare una serie di precauzioni ormai consolidate quali indossare la mascherina, lavarsi le mani, ventilare le aule, e si ritiene che il loro ruolo nell’accelerare la trasmissione del coronavirus in Europa sia limitato».

Più sfumate le conclusione di uno studio compiuto dall’Associazione Italiana di Epidemiologia, che ha confrontato i dati per fascia di età, tenendo anche conto del numero di tamponi effettuati, un fattore che può confondere l’interpretazione delle cifre. La ricerca mostra che tra i ragazzi delle scuole medie e superiori il contagio nella seconda ondata ha accelerato più che nelle altre fasce di età. «Nel complesso, tali aumenti sono stati però contenuti e non possono essere considerati i soli responsabili della ondata epidemica» concludono gli epidemiologi, precisando che «ci sono buoni motivi per pensare che perlopiù gli ambienti scolastici siano ben controllati, con misure igieniche e di distanziamento. Le vie di trasmissione sono soprattutto extra-scolastiche, tra ragazzi che si frequentano fuori dalla scuola, in contesti di svago o commerciali, e trasferiscono poi il contagio in famiglia»

Ma non tutti sono d’accordo con questa interpretazione rassicurante dei dati scolastici. Il fisico Alessandro Ferretti dell’Università di Torino da molti mesi raccoglie e analizza i dati provenienti dalle scuole e sulla riapertura si è fatto un’opinione diversa: «Le evidenze principali sono contenute in analisi di dati riferite a molti paesi diversi sull’impatto delle diverse misure di contenimento pandemico. E vanno tutte nella stessa direzione: la chiusura delle scuole è una delle misure con l’impatto maggiore sull’indice di trasmissione Rt». Secondo una ricerca pubblicata sulla rivista Nature Human Behavior a novembre 2020 e basata sui dati di 79 Paesi, chiudere le scuole da sola abbassa Rt di un valore compreso tra 0,15 e 0,21, un impatto inferiore solo a quello del divieto di assembramento. Anche un’altra estesa ricerca pubblicata da Lancet Infectious Disease in ottobre rivelava che in 131 Stati monitorati la chiusura delle scuole in un mese fa calare l’indice dell’15%, mentre riaprirle lo fa risalire del 24%.

L’Iss sbaglia, a considerare sicure le scuole? «Lo studio dell’Iss non guarda al personale scolastico, quello che può dare più informazioni. I ragazzi vanno a scuola più o meno tutti e non c’è un campione di controllo con cui confrontare i dati. Per gli insegnanti invece questo confronto si potrebbe fare, paragonando il livello di contagio in diverse categorie di lavoratori». I dati sul personale però sono lacunosi, «soprattutto nelle regioni più colpite e statisticamente significative, Lombardia e Veneto. In Piemonte, siamo riusciti a ottenere i dati e abbiamo scoperto che il personale di medie e primarie si è contagiato con una frequenza due volte e mezzo più alta rispetto alla popolazione, mentre nella scuola dell’infanzia l’incidenza è stata addirittura tre volte e mezzo più elevata. Ma come si fa a dire che le scuole sono sicure, se non si hanno i dati sulle regioni più importanti?» Per Ferretti questa è la vera falla: «se questi dati fossero stati raccolti, si potrebbe capire quali scuole sono contagiose e quali no e perché. E potremmo individuare i fattori di rischio».