Sono 242 le vittime di Covid-19 registrate nelle ultime 24 ore, e 31.610 dall’inizio dell’epidemia. I nuovi casi positivi ieri sono stati 789 che portano il totale a 223.885 persone finora risultate positive.

Oltre un terzo dei casi (299) e quasi la metà dei decessi (115) sono stati registrati in Lombardia. La circolazione del virus è ancora sostenuta anche in Piemonte, in cui si rilevano 137 nuovi casi e 65 vittime, nel Lazio (73) e in Liguria (65).

ANCHE IN QUESTA settimana l’epidemia ha rallentato: la media dei nuovi casi giornalieri è scesa a 957, contro i 1393 della settimana precedente (-32%). Nello stesso periodo, i decessi giornalieri medi sono calati da 280 a 201 (-28%). Il Molise, che in una settimana ha registrato 80 nuovi casi contro i 27 della settimana precedente a causa di un focolaio partito da un matrimonio, è l’unica regione in cui il contagio accelera in maniera sensibile.

È la fotografia dell’Italia che ci regalano i due mesi di lockdown. Quella che si conclude è l’ultima settimana di cui se ne riscontrano gli effetti. I contagi registrati fino ad oggi risalgono infatti al periodo precedente il 4 maggio, poiché l’incubazione del coronavirus dura mediamente 6 giorni e dopo la comparsa dei sintomi bisogna attenderne altri 6 prima di ricevere i risultati del tampone.

DA DOMANI, i dati inizieranno a dirci qualcosa sulla «fase 2», che con le aperture di alcune attività e la maggiore circolazione delle persone potrebbe far ripartire il contagio. Per tenere sotto controllo la situazione, il governo aveva elencato 21 indicatori e i criteri da soddisfare in ogni regione per non procedere a nuove chiusure. Le regioni però non hanno fatto i compiti entro giovedì 14, la data prevista dal decreto: troppe quelle con i numeri non in regola o che non hanno proprio consegnato i dati richiesti dalla “cabina di regia” composta da ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità (Iss) e regioni. Perciò, ci si avvia alla «fase 2» con un contagio ancora attivo in più di una regione e, soprattutto, senza adeguati strumenti di monitoraggio nella maggior parte dei casi.

COM’ERA PREVEDIBILE, molti criteri fissati dal governo il 30 aprile si sono rivelati troppo esigenti. A rivelarlo sono i dati pubblicati nel rapporto di sorveglianza epidemiologica settimanale dell’Iss.

Uno dei criteri principali per il monitoraggio, ad esempio, riguarda il tempo che trascorre tra l’insorgenza dei sintomi e la diagnosi, cioè il responso del tampone. Secondo gli indicatori ministeriali, in ogni regione non dovranno passare più di 5 giorni. Ma il tempo medio che trascorre tra i sintomi e la diagnosi secondo i dati dell’Istituto è ancora di circa una settimana. Questo significa che verosimilmente oltre la metà delle Regioni già all’inizio della «fase 2» non sono in regola con i requisiti per non tornare in «fase 1».

PER VALUTARE l’evoluzione del contagio attraverso il calcolo dell’indice di trasmissione Rt, inoltre, è necessario conoscere per ogni caso la data di insorgenza dei sintomi. La cabina di regia esige di conoscere questo parametro per almeno il 50% dei casi all’inizio della «fase 2», per poi salire al 60% nelle settimane successive. Attualmente, ben 9 regioni su 11 sono al di sotto di questo valore. E Basilicata, Liguria, Molise e Sicilia galleggiano appena sopra il 30%. Al di sotto di questa soglia diventa difficile persino calcolare l’indice di trasmissione Rt, quello che deve scendere sotto il valore 1 per garantire che l’epidemia non stia tornando.

UN ALTRO REQUISITO riguarda la conoscenza delle catene di trasmissione. Su questo, molte regioni faticano ancora a comunicare tempestivamente i dati all’Istituto Superiore di Sanità. Nel mese di aprile, solo per il 12% dei casi notificati all’Iss era noto il luogo di esposizione al virus.

Siamo dunque lontani dal «Test, treat, trace» (Testare, curare, tracciare) richiesto dall’Oms per la «fase 2». Ma il dubbio più inquietante lo solleva la Fondazione Gimbe, che rileva un numero di tamponi troppo basso rispetto alla popolazione in molte regioni. La mancanza di informazioni potrebbe essere il frutto di «comportamenti opportunistici delle Regioni finalizzati a ridurre la diagnosi di un numero troppo elevato di nuovi casi» per evitare un nuovo lockdown.