La discussione delle proposte di riforma della legge elettorale, al momento una ventina, non comincerà nemmeno la prossima settimana. La commissione affari costituzionali della camera, che un mese fa ha strappato all’equivalente commissione del senato la competenza sulla riscrittura delle regole del voto, rallenta il passo e da lunedì prossimo sarà impegnata in una lunga serie di audizioni. Poteva essere breve, visto che i senatori hanno già spaccato il capello in quattro per alcuni mesi e che i deputati stanno lavorando (?) con procedura d’urgenza. Invece, a smentire i propositi ardimentosi del segretario del Pd, che quattro giorni fa voleva «chiudere in una settimana», il confronto parlamentare sui testi non si aprirà prima del 20 gennaio.

Comprensibile: prendere una strada prima di aver letto le motivazioni della Corte Costituzionale – la pubblicazione è prevista attorno a metà mese – può essere un azzardo. Allora via libera agli esperti, per ingannare l’attesa; ogni gruppo politico ha indicato i suoi e da lunedì a venerdì prossimi i deputati ascolteranno e interrogheranno 23 politologi e costituzionalisti, da Antonio Agosta a Nicolò Zanon.

Il Pd renziano deve mordere il freno, anche se il capogruppo democratico in commissione Emanuele Fiano, all’uscita dall’ufficio di presidenza che ha allungato il calendario, giura: «Il nostro obiettivo categorico e non negoziabile è concludere entro gennaio la discussione, per arrivare all’inizio di febbraio al voto dell’aula». Possibile fare tutto in una settimana e mezza? Solo se ai deputati della commissione sarà recapitato un testo blindato, con allegato l’accordo politico per farlo passare. Lo sguardo deve quindi spostarsi dai legislatori ai veri protagonisti della trattativa (notando per inciso che non tutte le colpe del ritardo erano dunque dei «pigri» senatori).

Matteo Renzi ieri ha confermato la disponibilità a incontrare Berlusconi (e Grillo) «se serve a chiudere», ma l’incontro non è ancora in programma. Il segretario gioca infatti su due tavoli: incalza, senza rompere, Letta e Alfano, e minaccia di continuo l’accordo all’esterno della maggioranza con Forza Italia. Com’è stato evidente dal momento in cui non fatto una proposta di riforma ma tre, senza dire quale preferisce, a muovere Renzi sono più ragioni politiche che tecniche. Anche perché sia il modello di legge elettorale preferito da Alfano sia quello maggioritario in Forza Italia sono tecnicamente delle «bufale». Il Nuovo centrodestra vuole il sindaco d’Italia, ma il sistema funziona bene solo con l’elezione diretta, che non si può certo introdurre in Costituzione in quattro e quattr’otto. Verdini spinge i berlusconiani sul sistema spagnolo, ma quel sistema senza soglie di sbarramento altissime e premio di maggioranza di dimensioni vicine a quello incostituzionale del Porcellum rischia di portare diritto a nuove larghe intese, un incubo per Renzi.

L’unica proposta che si può approvare abbastanza velocemente, allora, non è la più gradita, ma la meno generalmente sgradita dai partiti: il ritorno della legge Mattarella. Quel sistema, con il quale si sono già votati tre parlamenti, nelle intenzioni di Renzi andrebbe però pesantemente corretto, eliminando lo scorporo, introducendo una parità dei sessi nelle candidature uninominali e riducendo la quota proporzionale del 25% a un diritto di tribuna del 10%. Fatta la legge in due-tre mesi da oggi, però, resterebbe il grande problema della ridefinizione dei collegi. Una procedura che richiederebbe, spiega l’ex presidente dell’Istat Alberto Zuliani che guidò la commissione che allora si occupò della questione, tempi niente affatto brevi. Il parallelo con il 1993 può aiutare a farsi un’idea della tempistica. Anche allora la discussione sula riforma elettorale partì a gennaio, con l’intenzione di anticipare il referendum previsto per aprile. La legge Mattarella fu invece varata ad agosto, in modo che fosse coerente con quel referendum che nel frattempo aveva cambiato il sistema di voto del senato. Ma i nuovi collegi non furono pronti prima di dicembre, si votò così nell’aprile successivo. «Il lavoro non è affatto banale – garantisce Zuliani -, bisogna vedere cosa dirà la nuova legge ma penso che ci sarà bisogno di non meno di tre mesi, anche perché prima del decreto definitivo del governo era allora previsto, e potrebbe esserlo ancora, un passaggio parlamentare». E così l’occasione di accoppiare il voto politico a quello europeo, in calendario a fine maggio, appare già persa.