I leader europei riuniti l’altro ieri sera a Bruxelles per il Consiglio Ue informale hanno fatto sapere di «avere recepito il forte messaggio» giunto dal voto della scorsa domenica. Che cosa significhi esattamente, non è ancora chiaro: la coltre della propaganda – ciascun Paese ha la propria – impedisce di decifrare il senso di quelle parole. Ma una cosa è certa: se la reazione all’esito elettorale consiste solo ed esclusivamente nel balletto sulle nomine che sta andando in scena, allora c’è davvero poco da stare allegri. Evidentemente, se così fosse, i capi di governo – in testa la tedesca Angela Merkel e il britannico David Cameron – dimostrerebbero di avere un’idea tutta loro di quale sia «il messaggio» inviato dagli elettori.

Ancora prima che una questione di linea politica, in questo immediato post-voto è in gioco il processo (faticoso) di democratizzazione dell’Ue. Il Consiglio dei capi di governo, cioè, ha di fatto ingaggiato una lotta contro il Parlamento che ha come posta in palio l’equilibrio dei poteri nella complicata struttura dell’Unione. I trattati stabiliscono che spetti al Consiglio la facoltà di affidare l’incarico di presidente della Commissione (cioè dell’esecutivo), «tenendo conto del risultato delle elezioni». Sull’interpretazione di questa norma, l’altro ieri tutti i capigruppo dell’Eurocamera uscente si sono trovati d’accordo: nominare qualcuno tenendo conto del voto può significare soltanto che la persona che deve ricevere l’incarico risponde al nome di Jean-Claude Juncker, perché i popolari hanno la maggioranza relativa a Strasburgo (214 su 751).

Ma ciò che è chiarissimo ai leader parlamentari, lo è molto meno ai capi dei governi, che nel summit di martedì hanno voluto rendere evidente che non esiste alcun automatismo. Che è ciò che Merkel era sempre andata dicendo, anche durante la campagna elettorale: se il buongiorno lo si vede dal mattino, dunque, è lecito ipotizzare che il futuro non riserverà novità positive. Incaricando il presidente del Consiglio Ue Herman Van Rompuy di fare da mediatore fra il Consiglio stesso e il Parlamento per «cercare un nome», i leader nazionali hanno voluto far capire ai deputati chi mena davvero le danze. Si rischia lo scontro istituzionale, ma la cancelliera e colleghi sembrano non preoccuparsene, facendosi scudo di un’interpretazione letterale del trattato.

Merkel è stata abile, come sempre, nel catalizzare interessi diversi, rendendoli funzionali al suo disegno. Se Juncker è inviso a Cameron perché ritenuto troppo europeista, non scalda il cuore di Matteo Renzi per una ragione differente: il premier italiano vedrebbe bene un proprio connazionale al suo posto. Per ciascun capo di governo valgono motivazioni distinte, che, tuttavia, si combinano nel «rifiuto dell’automatismo». Nessuno sembra porsi il problema che la scelta di una persona che non sia Juncker – indipendentemente dal giudizio sul personaggio – significherebbe sconfessare in modo clamoroso la (già scarsa) partecipazione popolare alle elezioni appena celebrate. Le prime a essere state almeno un po’ «europee», proprio grazie alla presenza dei candidati presidenti delle varie famiglie politiche continentali.

Oltre questo piano solo apparentemente «procedurale», c’è poi l’orizzonte politico. E anche in questo caso, l’ottimismo è fuori luogo. Nessun leader socialista – né il perdente François Hollande, né il vincitore Renzi – ha infatti messo all’ordine del giorno una svolta: risolta in qualche modo la partita dei nomi, tutto continuerà come prima. Juncker o Schulz, o magari Enrico Letta, guideranno una Commissione «di larghe intese», che forse avrà maggiore dinamismo di quella uscente, ma che continuerà ad applicare le ricette di austerità conosciute fino ad ora. Conclusione affrettata? Non sembra: altrimenti, almeno una parola di dubbio sul Ttip, il trattato di libero scambio Usa-Ue che viene negoziato in gran segreto, l’altra sera si sarebbe udita. E invece sono risuonati soltanto i vuoti appelli alle «politiche di crescita» che Merkel è la prima a fare, sapendo bene che rimarranno flatus vocis.