Il mercato ha fatto dello spettacolo una macchina per fabbricare spettatori, i quali così contemplano lo spettacolo della propria vita. Ma è necessario proporre un’altra idea di spettacolo, come momento privilegiato per «imparare a vedere».

La nostra manifestazione, così come l’abbiamo immaginata, pone in primo piano la questione dello spettacolo, non tanto per cercare di sapere che cosa quest’ultimo possa essere, quanto per chiederci più concretamente: in quali contesti si pone oggi la questione? Le diverse interpretazioni, non avendo cercato di individuarli, si sono rivelate in genere piuttosto deludenti, quando non totalmente prive di interesse.

Quanto a noi, partiremo da un fatto: la questione dello spettacolo si pone nel contesto del liberismo economico che oggigiorno domina la prospettiva umana. A essere più precisi, l’attività umana (la stessa vita, insomma) è assoggettata unicamente alla prospettiva economica.

L’idea dell’arte per l’arte è un’aberrazione contro cultura. Ogni esempio storico dimostra come l’attività artistica sia pervasa dalla potenza del senso pratico e non da un «godimento mistico», secondo la formula di Lacan. Ciò che, originariamente, è potenza operatrice, diventa in seguito solo «potere di evocazione» in grado di animare unicamente i fantasmi della memoria e l’esaltazione del valore.

Per farci capire meglio, occorre prima di tutto relativizzare il termine contesto. Lo ricondurremo al significato che ne dà Birdwhistell: «Non è un ambiente, non è un paesaggio. E’ un luogo di attività dentro un tempo di attività». Questo punto di vista ci impegna a considerare lo spettacolo come un «tempo di attività particolare (artistico o del tempo libero) in un tempo di attività più ampio (il sociale)», e anche a cercare di cogliere il tempo libero, l’elemento artistico e quello culturale in quanto immersi in quest’altro contesto: l’«attività economica dominante» (l’economia di mercato). La questione diventa dunque più sottile: che cosa succede allo spettacolo quando è coinvolto in un mondo caratterizzato dall’«egemonia dell’economia»? Si può osservare che fin dall’inizio il termine spettacolo suggerisce due punti di vista, uno che riferisce alle attività ricreative, l’altro all’arte. Divertimento e arte non sono certo la stessa cosa, ma l’attività artistica è spesso considerata dall’opinione pubblica e dai media come un divertimento. Fusione deplorevole, perché in tal modo lo spettacolo finisce per significare ogni cosa e il suo contrario. Cerchiamo di vederci un po’ più chiaro.

Spettacolo deriva dal latino spectaculum, da spectare, «guardare». Ma guardare cosa? Semplicemente ciò che si fa vedere. Non si tratta di guardare qualunque cosa, ma ciò che si fa vedere. Non necessariamente lo spettacolo si fa vedere: quando si incentra su se stesso, diventa quasi esclusivamente un divertissement, un fine in sé, non fa più vedere, semplicemente distrae, rende non attenti, porta a «digerire», rimanda al solo consumo. Purtroppo, non si può non constatare che tutto nella nostra epoca confina lo spettacolo a questo ruolo.

Le ragioni di questa situazione sono tante, ma una sembra comprenderle quasi tutte e il termine digerire sembra indicarla perfettamente. Nel quadro dell’economia liberista che continua a imporsi, le leggi dell’economia di mercato si riferiscono alla produzione e al consumo di massa. Così, i criteri vigenti prendono in considerazione la qualità del prodotto solo nella misura in cui la si può mettere in relazione con il numero di prodotti venduti, gli incassi ottenuti e l’audience raggiunta. In contrapposizione a questa prospettiva «economicista», diremo che la qualità non può in alcun modo essere misurata con questi criteri, può solo essere spiegata, e spiegare in quest’ottica vuol dire condividere un piacere che non può essere pesato né misurato. L’espressione statunitense show-business è davvero rivelatrice. Spiega perfettamente che lo show (lo spettacolo) mira al business (gli affari). Il senso è chiaro: gli obiettivi economici sono prioritari rispetto a qualunque altra prospettiva, e in particolare il valore artistico è assoggettato agli imperativi economici (l’ordine contabile, che considera la quantità di pubblico raggiunto o il profitto realizzato). Con lo show business, lo spettacolo diventa un obiettivo in sé, «lo spettacolo per lo spettacolo»: lo spettacolo per fare pubblico e denaro («make good money», come amano ricordare gli statunitensi).

In Francia il termine spettacolo, non essendo stato ben precisato, ha assunto due significati molto diversi – che oggi alimentano malintesi davvero sconcertanti – a seconda che sia evocato da chi «fa arte» o da chi ne sostiene gli aspetti commerciali, i «promotori». I primi mostrano sdegno e sarcasmo nei confronti di chi «fabbrica spettacolo»; i secondi non perdono occasione per svillaneggiare i «rompiscatole». I primi non esitano a estromettere dal proprio progetto tutto quello che potrebbe suonare come spettacolo, mentre i secondi fanno del termine spettacolo un sinonimo di divertimento. Ecco la situazione nella quale ci troviamo.

Certamente, sarebbe stupido condannare lo spettacolo. A ben vedere, La società dello spettacolo evocata da Guy Debord indica essenzialmente la società che ha finito per fare dello spettacolo la propria finalità, una società che si dà come unico fine lo spettacolo di sé, e che dunque nega ai cittadini la possibilità di comportarsi come «attori, autori dei loro atti», riducendoli al ruolo non solo di spettatori ma, peggio, di spettatori della loro stessa vita. Insomma, in questa prospettiva, quello che viene chiamato tempo libero si trasforma in tempo dedicato a guardare uno spettacolo aspettando quello successivo, e ogni spettacolo ha come unica funzione quella di occupare «un tempo di audience», una maniera, per lo «spettatore della società dello spettacolo», di riempire un tempo vuoto, anziché avventurarsi in un tempo libero che dovrebbe essere oggi un tempo da liberare per reinventarsi la vita. Così lo spettatore finisce per dedicarsi allo zapping da uno spettacolo all’altro, passando il tempo ad allontanarsi progressivamente dalla realtà, guardandola scorrere. In questa subordinazione alla non vita il cittadino scompare, non è più che un elemento dell’audience che misura il business e fa «good money». Nella società dello spettacolo, la vera formula, dunque, non è più «the show must go on» ma «the business must go». E per quello, niente di meglio dello «show».

Se vogliamo per un momento considerare il titolo stesso delle nostre tre giornate dedicate a cercare insieme, non è difficile immaginare che vogliamo anche far uscire lo spettacolo da un’idea di competitività che si propone l’eliminazione dell’altro, o più prosaicamente da un’idea di competizione, fra chi deve essere il migliore. Ci sarà «spettacolo», certo, ma la finalità non sarà lo spettacolo in sé. Il nostro obiettivo è portare progressivamente chi interviene, gli ideatori, i protagonisti (pittori, attori in scena, musicisti, danzatori, grafici, fotografi, videasti, utenti multimediatici ecc.), tutti i partecipanti e gli spettatori, a comportarsi da cittadini, cioè ad agire tutti in quanto attori, autori e responsabili dei propri atti. Proprio su questo si concentrerà la manifestazione: come agire in quanto cittadini, cercando così di mettere in evidenza il ruolo dello scienziato, dell’esperto, dell’artista, dei cittadini in rapporto con gli altri cittadini, così da essere gli uni e gli altri al tempo stesso responsabili e autori dei propri atti.

 

(traduzione di Marinella Correggia)