Se la scultura tridimensionale per esistere come mentalità ha bisogno di porsi al Centro di uno spazio ideale, Centro di cui la società ormai, per fortuna, non ha più voglia né necessità, io mi sono guadagnato, adeguandomi con la Frontalità, la condizione di non chiederne: di non riproporlo. L’ubicazione frontale come altra mentalità mi è stata risolutiva per continuare a fare lo scultore». Così Pietro Consagra (Mazara del Vallo 1920 – Milano 2005) definisce l’aspetto più innovativo della sua scultura in Vita mia, l’autobiografia edita nel 1980 da Feltrinelli, e adesso ripubblicata da Skira, con la curatela di Luca Massimo Barbero (pp. 176, euro 16,00).
Questa nuova edizione, che mantiene integralmente il testo e l’impaginazione originaria inframezzata da numerosi disegni dell’artista, nasce nel contesto delle attività di studio e valorizzazione promosse dall’Archivio Pietro Consagra e in concomitanza con il catalogo ragionato.
Vita mia è un racconto di racconti, un insieme di ricordi e di riflessioni che riguardano molteplici aspetti della vita di Consagra. È una sorta di palinsesto inesauribile in quanto contiene vari livelli tematici che inducono a leggere e rileggere il testo, ogni volta come se fosse la prima volta, permettendoci di focalizzare l’attenzione su un tema sempre diverso: sul legame dell’artista con i differenti luoghi dove egli ha vissuto (la Sicilia, Roma, gli Stati Uniti, Milano) oppure sul suo rapporto con la fede politica (la militanza nel Partito comunista e il successivo distacco); sulle sue relazioni affettive (d’amicizia, d’amore, con la famiglia d’origine, con i figli) oppure sul suo percorso artistico (la formazione, gli inizi, la polemica contro il realismo, la conseguente adesione all’astrattismo, le mostre e le opere realizzate in seguito).
A tenere uniti questi argomenti tra loro eterogenei è il contesto storico, scelto da Consagra quale legante della narrazione. Il racconto delle sue esperienze personali, infatti, è sempre ben intessuto con affondi nelle vicende socio-politiche, culturali e artistiche coeve. La vita privata si interseca così con la Storia, la memoria individuale con quella collettiva. Come scrive Barbero nel testo edito a fine volume, in Vita mia Consagra è «una straordinaria voce ‘dentro campo’ che ci restituisce oltre al contesto anche le vicissitudini del progredire di un intero periodo».
Dedicato alla sorella Carmela, Vita mia prende avvio con il ricordo della famiglia d’origine e della Sicilia dove l’artista è nato e cresciuto, per poi delineare le tappe successive della sua vita, anche attraverso disegni, fotografie e un capitolo conclusivo su «Il percorso della mia scultura».
Iscrittosi a una classe serale di disegno, il giovane Pietro ben presto si trasferisce a Palermo per frequentare dapprima il liceo e poi l’Accademia di Belle Arti. Dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, si avvicina al comunismo, si iscrive al Partito e resosi conto, come egli scrive, che «tutto si decideva nel continente», nel 1944 si trasferisce a Roma, «cuore pulsante della creatività», condivide lo studio con Renato Guttuso e si dedica alla scultura, ponendosi costantemente una domanda: «La società, di che tipo di scultura avrà bisogno?».
Alla risposta giunge nel dicembre 1946 quando, grazie a uno scambio organizzato dalla Gioventù Comunista, si reca a Parigi e visita gli studi di Brancusi, Giacometti, Laurens, Hartung, Adam. Da qui la svolta: il 15 marzo 1947, con Carla Accardi, Ugo Attardi, Piero Dorazio, Mino Guerrini, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo e Giulio Turcato redige un manifesto da pubblicare sul primo e unico numero della rivista «Forma». Dichiarandosi «formalisti e marxisti», questi artisti dichiarano la propria opposizione alla deformazione espressiva della figurazione picassiana e al realismo allora diffuso.
Verso l’astrazione
Consagra volge così all’astrazione: dapprima modella in gesso sculture totemiche verticali, tese a ricercare la luce e la forma pura; in seguito, reperite assi di legno, laminati, tondini di metallo e imparata la tecnica della saldatura, realizza opere volte ad «allargare quella che era una tendenza verticale, verso l’orizzontalità, verso dove si sviluppano i rapporti», egli ricorda in Vita mia, in favore dell’«Orizzontalità nell’ipotesi di uno spazio colloquiale». Si tratta dei Colloqui (1952-’63), sculture che, allontanandosi dalle tre dimensioni si pongono in un dialogo, definito dall’artista «diretto e quindi immediato frontale» con l’osservatore. Inoltre, anziché delineare un racconto diacronico come i bassorilievi dell’antichità, propongono un’immagine raccolta entro uno schema quadrangolare costituito da piani sottili, accostati o sovrapposti, implicanti una visione sincronica.
È un’esigenza morale a condurre Consagra a liberare la scultura dalla tridimensionalità in quanto le tre dimensioni, costringendoci a girare attorno all’opera come se questa fosse un idolo, instaura sempre un centro autoritario. La frontalità, invece, ci viene incontro favorendo un rapporto diretto e paritetico tra scultura e osservatore.
Dalla frontalità alla bifrontalità il passo è breve, ma successivo alla profonda crisi vissuta dall’artista di fronte al trionfo della Pop Art alla Biennale di Venezia del 1964: «Quel trionfo travolgente dell’arte americana mi stordiva», egli rivela.
Superato quell’impasse anche grazie al supporto della compagna e critica d’arte Carla Lonzi, Consagra si avvicina alla pittura a smalto e realizza le sculture colorate e bifrontali dei Piani sospesi (1964) e dei girevoli Ferri trasparenti (1965-’66), dove raddoppia il punto di visione, amplificando il rapporto opera-osservatore e anticipando il tema dello spessore in scultura, poi sviluppato nel 1968 con le Sottilissime e con gli Edifici Frontali.
Se nelle Sottilissime riduce la superficie scultorea a soli due decimi di millimetro, negli Edifici Frontali si cimenta con il massimo spessore possibile (sei metri, a nastro continuo, senza angoli retti) al fine di rimanere nell’ambito della frontalità, ma pensandola ora in termini architettonici.
Per una città ideale
È infatti dello stesso anno la Città Frontale, il testo in cui l’artista raccoglie riflessioni e progetti per una città ideale, postulando una «posizione nuova verso l’architettura e gli architetti. Non avrei più accettato di collaborare in seconda istanza, ma sul piano della progettazione» per fare in modo che l’architettura non si limiti più a rispondere a esigenze di funzionalità ed economia, ma si ponga in dialogo con l’uomo che la vive e la osserva.
Frontalità, rapporto scultura-ambiente e coinvolgimento dello spettatore resteranno per sempre le parole d’ordine della scultura di Consagra e saranno alla base di capolavori come Trama, presentata alla Biennale di Venezia nel 1972, costituita da sette sculture in legno, alte circa tre metri, disposte su una piattaforma attraversabile dal visitatore, ma collocate troppo vicine le une alle altre per essere viste ciascuna nella propria totalità.
Trama è anche un efficace epiteto attribuibile a Vita mia, un racconto in cui i molteplici fili tematici della vita dell’artista delineano, intrecciandosi l’uno con l’altro, un complesso ordito corrispondente al ritratto di un uomo che è stato capace di rinnovare nel profondo la scultura del Novecento.