Nel dibattito sull’isocrazia (introdotto da Pier Giorgio Ardeni e Stefano Bonaga, il manifesto del 17 dicembre 2020) Domenico De Masi ha ricordato la mirabile definizione kantiana dell’illuminismo quale «autoliberazione dell’uomo dallo stato di minorità intellettuale volontaria». Questa «autoliberazione» richiede due gambe: il saper far uso critico della ragione e la volontà per realizzarlo.

Le due dimensioni si intrecciano, perché l’uso critico della ragione deve collegarsi con la capacità di operare nel mondo della prassi e, di contro, si deve operare nel mondo della prassi sapendo sviluppare una ragione critica. In questa prospettiva l’uomo è dimidiato in due dimensioni: quella della ragione (critica) e quella della volontà (autonoma). Non basta far uso del proprio cervello, ma bisogna anche auto-educarsi per voler utilizzare la propria ragione.

Secondo Kant per l’illuminismo non occorre altro che la libertà «e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi». In questo senso la forza critica dirompente dell’illuminismo è evidente, perché Kant stesso rileva come, a fronte di questa esigenza di far pubblico uso della ragione, tuttavia ascoltiamo sempre gridare, da tutte le parti, un invito esattamente opposto: «Non ragionate! Il militare dice: Non ragionate ma ubbidite! – L’uomo delle tasse dice: Non ragionate, ma pagate! Il religioso dice: Non ragionate, ma credete!». In tal modo gli uomini, invece di essere guidati all’autonomia, sono mantenuti nella condizione di minorenni, sempre guidati da tutori.

Nella posizione kantiana è presente un nucleo critico incandescente che, pur essendo stato in genere seppellito, da molti interpreti, sotto tonnellate di greve metafisica, ha tuttavia operato, in modo rivoluzionario, entro la modernità. Infatti, per Kant la domanda cos’è la filosofia? implica tre questioni decisive: cosa possiamo conoscere? cosa dobbiamo fare? cosa ci è lecito sperare? Queste domande implicano il precedente dualismo tra razionalità e volontà, ma ora emerge un nuovo piano strategico. Kant si chiede, con delicatezza, cosa possiamo conoscere. La conoscenza non è scontata, implica una sfida, perché rinvia all’ordine prescrittivo ed esplicativo dell’oggettività scientifica e della verità cognitiva, ossia al sapere in quanto tale.

Ma l’uomo non è solo “conoscenza”, perché è anche, e soprattutto, “azione”, “prassi”. La seconda domanda rinvia alla dimensione pratica del dovere, che configura l’ordine prescrittivo e giuridico della correttezza morale e delle regole normative coincidenti con l’ambito del dovere. In quella situazione come devo comportarmi? cosa devo fare? Infine, l’uomo non è esaurito né dalla conoscenza, né dalla morale, perché, nel cuore di ciascuna persona alberga il desiderio che rinvia all’ambito dell’ordine autoriflessivo dell’emancipazione e dell’autenticità, che indichiamo con la speranza che alimenta la nostra esistenza. Una poetessa milanese come Daria Menicanti esprimeva questa consapevolezza ricordando come ogni uomo coincida sempre con le sue aspettative.

Questi tre “ordini” del sapere, del dovere e della speranza configurano l’architettonica dell’illuminismo kantiano che ci permette di meglio intendere la storia umana. Per quale motivo? Perché sottolineano come l’incremento del sapere abbia un inevitabile riflesso nell’incremento della libertà (più cose sappiamo, più si amplia la nostra azione, la nostra libertà e responsabilità). D’altra parte, è vero anche il viceversa: l’approfondimento delle conoscenze presuppone la libertà della ricerca. Pertanto, per Kant conoscenza e libertà costituiscono due facce della stessa medaglia, quella dell’incivilimento, grazie al quale l’uomo esce dalla barbarie per entrare nella storia.

Kant ha ben compreso come la chiave di volta del rapporto tra conoscenza e libertà sia la speranza, ovvero il desiderio utopico di realizzare quanto non esiste ancora, ma è tuttavia pensabile, purché intelligenza e morale collaborino per un determinato fine. La storia successiva ha distrutto questa architettonica kantiana facendo in genere decadere il sapere alla sfera strumentale del lavoro, l’ambito morale del dovere alla sfera intersoggettiva della comunicazione e l’ambito della speranza alla sfera autoriflessiva, ipostatizzata, delle prassi liberatrici (imperniate su ideologie che hanno spesso sacrificato gli uomini a miti dittatoriali, facendo della teoria – per dirla con Gramsci – «un mito popolare energetico e propulsivo»). In tal modo la tricotomia critica kantiana si è trasformata in una dicotomia caricaturale che ha spezzato il delicato, ma fondamentale, equilibrio tra sapere, libertà e speranza le cui conseguenze drammatiche sono evidenti nel populismo e nella storia del Novecento. Il che conferma, sia pur a rovescio, come l’autentico motore della storia sia l’utopia. Per questa ragione, per essere realisti, dobbiamo sempre volere l’impossibile…