Ho davanti agli occhi la sua foto. Un uomo alto, elegante, circondato da un gruppo di giovani: Marcel Detienne a Siena una ventina di anni fa, il sorriso ironico e intelligente, gli occhiali dalla montatura invisibile. I miei studenti lo adoravano e avevano ragione. Tutti abbiamo imparato da lui e continueremo a farlo perché, pur se ci ha lasciato, sugli scaffali di innumeri biblioteche, pubbliche e private, restano i suoi libri. Che sono tanti e tutti diversamente importanti. Quando lo conobbi, nei primi anni ottanta, la sua fama era già grande. In Italia i detrattori erano ovviamente in numero proporzionato alla medesima, perché certo gli studiosi tradizionali non amavano il suo modo spiazzante, originale, di parlare della cultura greca: ma questo ai miei occhi non faceva che accrescere il valore dei suoi studi. Lo incontrai a Venezia, dove insegnavo Letteratura Latina e Detienne era professore in visita. Ero emozionato, ovviamente. Parlammo a lungo, organizzammo assieme un incontro sul mito, diventammo amici. Ero emozionato e avevo ragione di esserlo. Ai miei occhi Detienne incarnava lo spirito del Centre Louis Gernet, quello che lo vedeva assieme a Jean-Pierre Vernant e Pierre Vidal-Naquet. Quando, anni dopo, scoprii che Detienne era belga, di Bruxelles, restai stupito. La sua conversazione, così ironica e scintillante, mi era sembrata talmente parigina! Ma forse era solo colpa del mio francese. A Liège, un ateneo che vanta una grande tradizione nelle discipline dell’antichità, Detienne aveva fatto i suoi studi di filologia classica, dedicandosi in particolare al pitagorismo. Perché questo va ribadito, Detienne non era solo lo studioso che ha aperto nuovi orizzonti allo studio della cultura greca: era anche un grecista fatto e finito, che leggeva i testi di prima mano e non arretrava certo di fronte a quelli più impegnativi.
Per parlare di Detienne è inevitabile tornare a un momento particolarmente vivace della nostra storia culturale, fra gli anni settanta e i primi anni ottanta. Dalla Francia soffiava infatti il vento del nuovo, negli studi classici ma non solo. Era il momento in cui si andava in libreria per comprare i libri che Detienne scriveva assieme a Vernant (Le astuzie dell’intelligenza, La cucina del sacrificio), quelli che Vernant scriveva a sua volta con Vidal-Naquet, quelli che questi autori mettevano assieme individualmente. Tutto un intreccio di nomi e di connessioni che ai più giovani giungevano, sto dicendo, attraverso le librerie e relative benemerite case editrici, assai meno attraverso l’Università: perché di rado i professori consigliavano certe letture. La scuola di Parigi, come impropriamente la si è chiamata, veniva in buona compagnia: con loro, e dietro di loro, c’erano infatti Emile Benveniste, Claude Lévi-Strauss, Roland Barthes, c’erano lo strutturalismo, la semiotica, la narratologia, in Italia c’erano Umberto Eco, Cesare Segre e D’Arco Silvio Avalle. A ripensarci oggi sembra incredibile che in quei pochi anni si fossero concentrate così tante personalità straordinarie e soprattutto così tante prospettive di studio. Oggi, che nelle Università di tutta Europa siamo entrati nell’era della valutazione generalizzata, e dunque la qualità della ricerca dovrebbe stare in cima a ogni pensiero, si poteva almeno sperare che gli studi umanistici conoscessero una nuova fioritura. Purtroppo non è così, tanto che quegli anni sembrano ormai il tempo degli eroi. Speriamo nel futuro. Ma che cosa rappresentava Marcel Detienne nel panorama che ho descritto?
Per semplificare molto, com’è inevitabile, i suoi studi segnavano il progressivo ingresso dell’antropologia nello studio dell’antichità greca – salvo che, lungo il filo del tempo, l’antropologia tout court finirà per occupare quasi interamente la riflessione di Detienne, mentre il mondo greco assumerà il ruolo di un «comparabile» fra gli altri. E anche questo costituisce un grande merito. Cerco di spiegarmi. Ne I giardini di Adone Detienne aveva realizzato la ricostruzione di un fenomeno religioso – gli effimeri giardini che le donne greche coltivavano in onore del giovane eroe – dando significato a un insieme di piante e di aromi che si scoprivano in relazione con altrettanti miti e rituali: una rete di connessioni che sarebbe rimasta invisibile a un occhio non antropologico, incapace cioè di scorgere sistemi là dove altri vedevano solo stravaganti dettagli. Fu una grande lezione per molti di noi. Naturalmente non era questa la prima volta che l’antropologia faceva il suo ingresso nel mondo degli studi classici – suscitando ogni volta le debite polemiche. C’era già entrata in Germania, nel Settecento, con Christian Gottlob Heyne; tornerà ad affacciarsi con forza nell’Inghilterra di James George Frazer, dei ritualisti di Cambridge, di Eric Dodds. L’antropologia di Detienne però, in questa come in altre sue opere, non interpretava la cultura greca prendendo a prestito miti e riti da culture lontane (alla maniera di Frazer), ma costruendo connessioni interne al mondo che studiava. La stessa cosa che è avvenuta in altre sue opere, come Dioniso e la pantera profumata.
Poi ci fu un momento di «frattura». Con L’invenzione della mitologia, infatti, Detienne ci sconcertò tutti con un libro che faceva della categoria «mito» una invenzione moderna, settecentesca, in ironica polemica con quanti avevano continuato a considerare questo genere di racconto una specifica forma di pensiero – forse in polemica anche con se stesso. Dopo di ciò l’antropologia torna prepotentemente ad affacciarsi, nella ricerca di Detienne, adesso in una prospettiva decisamente comparativa. Non però alla maniera di Frazer, sempre in caccia del simile che va col simile: al contrario, con un grande interesse verso ciò che è «diverso». Sono gli anni in cui Detienne organizza incontri fra specialisti di culture lontane, da cui scaturiscono opere collettive che in Italia hanno forse avuto meno eco. Affrontano temi di enorme interesse, come Tracés de fondation, un libro in cui si esplorano i diversi modi di «fare territorio» fra Roma, Grecia, India, Cina, Africa; o Qui veut prendre la parole?, un’analisi comparata delle diverse forme di assemblea presenti nei comuni italiani, fra i Cosacchi, fra i monaci del Giappone medievale, fra i Costituenti nella Francia dell’89… Indirettamente quest’ultima riflessione sfatava anzi il mito della esclusività greca in materia di democrazia. Questa nuova direzione nella ricerca di Detienne ha trovato una esplicita affermazione nel suo Comparare gli incomparabili, in cui si teorizza appunto l’importanza non solo di mettere a confronto le culture, ma di compararne soprattutto gli aspetti che più paiono divergere, perché solo così si riesce a vedere e comprendere ciò che si ha di fronte. Un comparativismo sperimentale, insomma. Nello stesso tempo, e sullo stesso slancio, Detienne criticava le prospettive esclusive, nazionali, soprattutto negli studi storici; e insieme combatteva la fede nel presunto miracolo che mette la cultura greca, e dunque quelle che a lei si richiamano, al di sopra delle altre. È il tempo di Come si diventa autoctoni e de I Greci e noi, libri che paiono assai lontani dai Giardini di Adone, ma che mettono in campo lo stesso appassionato rigore. Detienne, insomma, ci metteva in guardia contro i pericoli delle identità e del loro culto, oggi diremmo contro i sovranismi. Anche questo, la necessità di contrastare simili derive, sento di averlo imparato da lui. Grazie Marcel.