Scrittrice, poetessa, Krisztina Tóth è una delle voci più significative e originali della letteratura ungherese contemporanea. Si è ritagliata il suo posto nella narrativa per l’infanzia occupandosi di temi insoliti che affrontano i tabù con uno stile semplice e leggero Autrice di venticinque libri, tradotti in più di una dozzina di lingue, esce ora in Italia – il 2 luglio – per la prima volta con Pixel per la casa editrice Ets (pp. 128, euro 11), nella traduzione di Mariarosaria Sciglitano. Partendo dal suo ultimo libro, abbiamo parlato con lei del complesso corso politico e sociale che l’Ungheria sta attraversando in questi anni.

Cosa ha ispirato la stesura di questa serie di racconti?
Nel 2011 una rivista letteraria mi ha chiesto di scrivere un racconto al mese. Non ho accolto questa richiesta con piacere perché pensavo ad una struttura più complessa. Poi ho deciso di tagliare il testo e di scrivere capitoli che potessero essere letti singolarmente e che, alla fine, dessero vita ad una storia più articolata. Questo libro è caratterizzato da una complessa rete di relazioni e da connessioni temporali. Da ragazza ho studiato scultura che è stata anche la mia prima professione. Inoltre, ho immaginato questo testo come un qualcosa che si estende nello spazio, un elemento in continua espansione. Ho delineato le connessioni su un foglio di carta e le ho colorate mentre la storia si svolgeva. Con questa frammentazione pixellata credo di aver reso qualcosa della frammentazione del mondo, di come uno scrittore nell’era postmoderna possa rendere in prosa le «Grandi Storie» come un mosaico.

In molti casi sembra che il suo libro racconti una storia di relazioni che non portano a nulla. È questa, sempre più, la nostra condizione esistenziale odierna?
Il tema di fondo è che attraverso i rapporti emergono molti problemi sociali e che in essi si scontrano i segreti trascinati per decenni, i traumi non elaborati. I protagonisti di queste storie non sono padroni del loro destino, ne vengono travolti: le azioni e le reazioni sono spesso determinate da schemi reconditi di cui loro stessi non sono consapevoli. Le loro relazioni sono quindi destinate al fallimento fin dall’inizio. Si tratta di persone sole, a prescindere dal fatto che abbiano una relazione o meno. Non sono in grado di affrontare le turbolenze del mondo che li circonda: il passato personale e quello collettivo sono inscindibili, e il deterioramento dei rapporti umani indica che la società nella quale queste persone vivono è malata fino al midollo. Da quando è scoppiata questa epidemia l’ansia in cui ciascuno di noi vive da anni ha preso forma. Viviamo in società malate, sono malate le nostre reazioni, i nostri desideri e le nostre aspettative. Questa pandemia ci ha sbattuto in faccia tutte le questioni che prima non volevamo affrontare: lo stile e il ritmo di vita che finora abbiamo seguito sono insostenibili.

Nelle sue opere è presente il riferimento alla condizione di genere. Qual è la situazione delle donne oggi in Ungheria?
È difficile rispondere a questa domanda. Siamo al centro dell’Europa, al confine fra l’Oriente e l’Occidente. Questa posizione geopolitica è stata sempre problematica. Il cambio di sistema ha posto la questione se dovessimo aderire a una parte o all’altra. Oggi, a trent’anni dalla rimozione della Cortina di ferro, quando il paese si sta di nuovo avvicinando alla sfera di influenza post-sovietica, si rafforzano contestualmente anche quelle tendenze conservatrici ataviche che riportano la società indietro nel tempo. I nostri politici di spicco fanno spesso dichiarazioni sessiste scioccanti, la didattica avalla il mantenimento dei ruoli di genere tradizionali, la violenza domestica è un problema serio. Non abbiamo ratificato la Convenzione di Istanbul, e sebbene ci siano misure di facciata, non c’è alcuna chance per un cambiamento di mentalità. L’influenza temporanea delle mobilitazioni internazionali del Me Too ha portato alla luce molte storie emblematiche, ma in un contesto talmente conservatore che spesso sono le donne stesse ad abbracciare questi ruoli di subordinazione, neanche un movimento così influente riesce a produrre un qualche effetto. La colpevolizzazione della vittima è sempre stata più forte delle voci che sollecitavano il cambiamento. In un paese in cui anche in Parlamento sono permesse battute sessiste, in cui spesso il lavaggio del cervello inizia già all’asilo, c’è da credere che nemmeno Me Too possa determinare un cambiamento concreto. Avverto questa realtà anche nel mio lavoro, anche nel mondo della letteratura.

Gli ebrei e i Rom sono spesso tra i protagonisti dei suoi racconti e romanzi. Cosa rappresentano nella storia e nel presente dell’Ungheria?
Nelle storie rappresentano delle minoranze, quelle che prima o poi finiscono col diventare vittime ai margini della società. La figura dell’ebreo era importante dal punto di vista dei traumi ereditati, non elaborati, che continuano a condizionare la società. Quella del Rom ha invece a che vedere con la povertà e contestualmente con una vulnerabilità sociale ricorrente. In tutte le epoche storiche ci sono stati i capri espiatori il cui ruolo era quello di distogliere l’attenzione e scaricare su di essi le tensioni accumulate. Non è solo a livello individuale che ripetiamo gli schemi del destino ereditati dai nostri genitori, ma anche a livello collettivo. Questo cambiamento di prospettiva, in una direzione o nell’altra, scorre attraverso le pagine di Pixel, così che ogni nostro movimento, ogni nostra reazione sono determinati dallo spazio più o meno ampio in cui viviamo, dal passato lontano e vicino da cui proveniamo.

In generale, come è cambiato il paese nel corso degli ultimi decenni?
Potrei parlare a lungo di questo, in quanto si tratta di una questione complessa. Cerco di dire in modo preciso e sintetico quello che penso. Trent’anni fa ci fu un’opportunità fugace ma chiara per questo piccolo paese, linguisticamente isolato e abbastanza frustrato per questo motivo, incuneato fra le grandi potenze, di muoversi in una direzione diversa per uscire dalla miseria post-sovietica ed evitare la trappola del nazionalismo individuando chiaramente i valori nazionali. Poi sono passati gli anni e si sono rafforzati sempre di più il nazionalismo, il populismo e la xenofobia. Dopo il cambio di sistema un paese aperto si è chiuso, e invece di costruire un futuro sostenibile, si è avvolto in una nebbia di false nostalgie storiche, sprecando anche le risorse reali che aveva in precedenza. Io amo l’Ungheria, non me ne sono mai voluta andare, ma oggi prendo atto dell’atmosfera soffocante in cui viviamo, del senso di immutabilità, dell’apatia, della paralisi dell’intellighenzia. Il cambio di sistema non ha portato ciò in cui noi, allora giovani, speravamo. Nel frattempo, gran parte della nostra vita è passata. Non c’è stato un vero cambiamento, questo nuovo sistema è stato costruito su un terreno paludoso e fangoso.

Cos’altro può accadere, dal punto di vista culturale e sociale, oltre a quello che abbiamo già «registrato» finora?
Oggi c’è una parte rilevante della società che si aspetta ciecamente che i dirigenti politici risolvano tutti i suoi problemi. Un’altra, sempre significativa, è arrabbiata per questo. Ne consegue una lacerazione politica così profonda che mi colma di orrore. La demonizzazione del potere tacita la responsabilità e punta il dito contro una sola persona come causa di tutti i mali, eppure la responsabilità è sempre collettiva. La mia responsabilità di scrittrice è quella di registrare precisamente come vedo questo mondo. È in gioco la conservazione della mia capacità intuitiva e della mia dignità. Se qualcuno fra qualche decennio leggerà Pixel forse avrà un’idea di come sia stato possibile vivere in questo periodo turbolento in Ungheria e, più in generale, nell’Europa centro-orientale.