Il blitz sulle regole del congresso arriva un po’ a sorpresa, a mezza bocca, ma arriva. E fa esplodere in mille pezzi le litigiose anime del partito democratico.
Alla direzione nazionale il segretario «traghettatore» lascia campo libero all’asse Bersani-Letta-Franceschini lanciando un doppio ostacolo al sindaco di Firenze: il primo – già messo in conto dai renziani – è che si faranno prima i congressi locali e poi, solo poi, i candidati alla segreteria si presenteranno al congresso. Il secondo – la bomba – arriva quando si capisce che l’intenzione esplicita della direzione è blindare il partito facendo votare il segretario solo dagli iscritti e lasciare invece la scelta del candidato premier agli elettori della coalizione (anche se su quale coalizione si glissa del tutto).
La rivolta di renziani, dalemiani, «giovani turchi» e cani sciolti è immediata. Tanto che la proposta di Epifani non viene nemmeno messa ai voti ed è tutto rinviato ad agosto. A dopo il possibile tsunami della sentenza Mediaset, che potrebbe stravolgere tutti i piani di Pd e governo.
Eppure alla vigilia, Epifani sembrava pronto a concedere ai renziani il 15 dicembre come data conclusiva del congresso e di svolgimento delle primarie per la nomina del segretario. Anticipando il tutto a metà novembre (il 24, specificherà poi Franceschini) in modo da consentire al sindaco di Firenze di decidere liberamente se ricandidarsi alla guida della sua città oppure fare subito il gran salto.
Nei conciliaboli pre-direzione, Epifani non aveva escluso che a votare per il segretario non fossero più solo gli iscritti ma chiunque si si fosse iscritto all’albo di «elettore del Pd» (il cosiddetto «lodo Fassino», sic). Mentre già in segreteria era stato chiaro sull’idea di far svolgere i congressi locali (regionali, provinciali e cittadini) prima di quello nazionale. Questa tabella di marcia, secondo i renziani che chiedevano di rovesciare i tempi, è fatta apposta per garantire la continuità delle aree di potere nei territori e vanificare così almeno in parte l’eventuale elezione a segretario nazionale del loro leader. Se fosse eletto al vertice, infatti, il sindaco dovrebbe a quel punto fare i conti con una struttura locale a lui ostile.

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I due tempi, uniti al limite del diritto di voto alla platea degli iscritti (reclamata a gran voce dal palco da Franceschini), rappresentano di fatto un avvertimento al sindaco a non candidarsi per la segreteria.
Il proposito, sempre più evidente, è di «prodizzare» Renzi, che potrebbe candidarsi a Palazzo Chigi solo se vincerà le primarie. E in ogni caso dovrà lasciare le leve del partito a chi di dovere. L’idea di far scegliere il segretario solo agli iscritti piace ovviamente anche a Enrico Letta, intervenuto ieri, il cui interesse prevalente è tenere la barra del governo per tutta la durata congressuale e lanciare così dall’alto la sua corsa a premier.
La mossa a tenaglia, da Palazzo Chigi e dai circoli, fa infuriare tutta la variegata area post-anti-bersaniana. «Regole da matti», dicono i renziani. «Troppa democrazia – ironizza Roberto Giachetti – il segretario facciamolo scegliere solo ai dipendenti del Pd e allo staff dei ministri». «Svanita l’istanza di partecipazione», tuona il navigato Goffredo Bettini all’unisono con il «giovane turco» Matteo Orfini. Ma la pietra tombale sul blitz franceschiniano la mette il dalemiano Gianni Cuperlo «Io sono per fare primarie aperte e comunque le regole si cambiano insieme». Lo stesso dicono gli altri due candidati ufficiali, Pippo Civati e Gianni Pittella. Un niet su tutta la linea che ha fatto saltare il banco, rinviando la decisione della direzione ad agosto. Renzi per la prima volta ha assistito a tutta la riunione ma se n’è andato senza proferire parola. Segnale che i suoi interpretano come la conferma che si candiderà alla segreteria. Il nodo rischia di trascinarsi fino all’assemblea del 14 settembre, l’organismo deputato a convocare il congresso.
La rissa, come se non bastasse, è coperta dall’ombra pesante di sondaggi Swg che a prenderli sul serio per i democratici sono una mezza Caporetto. Pd con due punti in meno rispetto alla settimana scorsa, Pdl avanti con il 27% rispetto al 23,5% dei rivali diretti, governo Letta precipitato al 26% dei consensi dal 43% dei primi giorni. Nemmeno la presenza di Matteo Renzi in testa all’indice di gradimento a pari merito col sovrano del Colle funziona come riconsolazione. Soprattutto perché, pur restando primo, in sette giorni ha perso ben quattro punti percentuali. I sondaggi valgono quel che valgono: però è difficile prendere sottogamba risultati così omogenei ed è del tutto impossibile affrontare senza fondata angoscia lo snodo della sentenza Mediaset.
In un contesto così incerto, il discorso di Epifani ha il sapore inconfondibile di una manovra al rinvio. Nessuno, né Renzi né i suoi rivali ancora incerti sul chi eventualmente contrapporgli, potrebbe infatti fare una scelta precisa oggi. Troppa la distanza, troppe le incognite che potrebbero sovvertire l’intero quadro. Del resto, non è questa la parola d’ordine che accomuna tutto l’establishment politico italiano da mesi: rinviare, rinviare, rinviare…