L’ennesimo voto di fiducia obtorto collo, l’ennesima sportellata in faccia: dopo aver subìto una legge sulle unioni civili «mutilate», anche la beffa dell’esultanza di Verdini e i suoi, salvatori della legge Cirinnà grazie ai loro 19 voti (sebbene «non determinanti», come si affretta a sottolineare Giorgio Napolitano). La minoranza Pd, dopo aver incassato un’altra bruciante sconfitta sul campo urla al «cambio di natura» del Pd e passa al contrattacco chiedendo il congresso. Contrattacco fino a un certo punto: fin qui i numeri del Pd si presentano a vantaggio del segretario-premier e una verifica congressuale a non potrebbe che confermarli, al netto dell’irruzione nella corsa alla segreteria di nuovi protagonisti.

Andiamo con ordine. Ieri Roberto Speranza, candidato in pectore alla segreteria per le tre minoranze riunite (aree Bersani, Cuperlo ed ex Civati) ha chiesto formalmente un congresso anticipato: «Non si può più stare zitti, è ora di fare una discussione vera sull’identità del Pd e questa è una cosa che si può decidere solo in un congresso». La replica della vicesegretaria Debora Serracchiani è un mezzo sfottò: «Verdini mai farà parte del Pd. Forse più che al congresso del Pd Speranza vuole candidarsi a segretario di Ala. Sicuramente avrebbe più chance. Se invece vuole candidarsi segretario del Pd si accomodi, ci metta la faccia. Vedremo chi vincerà». Parole sprezzanti, le risposte  non tardano. Il senatore Miguel Gotor: «Che il vicesegretario si sia sentita in dovere di precisare, bontà sua, che Verdini ’mai farà parte del nostro partito’ la dice lunga di quanto ormai sono avanti con i lavori: evidentemente, a parte l’iscrizione di Verdini al Pd, tutto il resto è già incluso e programmato in un gioco delle parti sempre più  imbarazzante per tanti iscritti ed elettori del Pd che devono potersi esprimere». «Dalla rottamazione, dall’alternativa al centrodestra, dal governo a termine si è passati al trasformismo nonché al ricorso a un ceto politico screditato, artefice della stagione berlusconiana. È questa l’identità del Pd e la sua linea?», rincara il collega Paolo Corsini.

A Serracchiani dà man forte un altro falco, Luca Lotti. Ma in realtà la richiesta di congresso anticipato rispetto alla data statutaria, dicembre 2017, può essere una mezza furbizia delle minoranze. Renzi non lo teme. Anzi: quella di gennaio 2017 è un’opzione che lui stesso ha illustrato già ai suoi. Infatti un renziano di stretta osservanza spiega: «Se vogliono anticipare il congresso ci fanno solo un favore».

Il cronoprogramma renziano lo impone: dopo le  amministrative di giugno,  il referendum costituzionale in autunno. Un appuntamento che Renzi immagina di stravincere. E di utilizzare come trampolino per il voto anticipato. Prima del quale un congresso per confermare  la scelta del candidato premier sarebbe di fatto obbligatorio.  Renzi lo aspetta con baldanza: fa i conti con una minoranza sempre più prigioniera di se stessa. Che continua a giurare che non lascerà mai il Pd. E che  in autunno sarà ridotta al silenzio mentre i pifferi renziani suoneranno il sì a una riforma cui Speranza e compagni si sono rassegnati all’ultimo e senza  convinzione.

«Nessuno pensi di trasformare i comitati per il sì nel nuovo partito», avverte Nico Stumpo, responsabile organizzazione dell’era Bersani. «Nel referendum si avvicineranno a noi altri soggetti, altre forze politiche. Ma non sarà lo schema del nuovo Pd». Il timore è che Renzi voglia compiere la trasformazione definitiva nel vituperato partito della nazione utilizzando  il rimescolamento  della fase referendaria. Per mettere ai margini la minoranza, che parte già con uno svantaggio imponente. Stumpo non condivide il ragionamento e fa l’esempio il congresso provinciale di Venezia che si svolge in questi giorni: «Faccio un’ipotesi? Vinceremo noi». Anche fosse, quante Venezie bersaniane conserva  l’Italia renziana? «Lo scorso congresso la sinistra, pure divisa, è finita con Cuperlo al 18 e Civati al 14. Totale 32. Ma era il momento peggiore per noi, subito dopo la ’non vittoria’ di Bersani e nel pieno delle promesse di Renzi. Oggi siamo in un’altra fase». Il candidato  sarà Speranza. Ma non sarà il solo:  da tempo si scalda anche  il governatore toscano Enrico Rossi. Nomi non smaglianti, che si presenterebbero anche  divisi: per Renzi sarebbe un congresso facile.

A meno che dalla maggioranza renziana non si autonomizzi un’area più  competitiva. E meno segnata dalla stagione delle sconfitte e dell’impotenza.  Come quella dei giovani turchi, guidata da un sempre più attivo (ed apprezzato) Andrea Orlando, ministro della giustizia. Ma Matteo Orfini, presidente del Pd e altro leader di quell’area, chiude la questione: «Invito tutti i partecipanti all’appassionante dibattito su congresso a indirizzare le energie sulle amministrative. Del resto parliamone dopo».