Non tutte le leggi approvate dal parlamento riescono a essere applicate. In Argentina sono ormai quattro anni che una normativa che vorrebbe limitare la proprietà monopolistica nei media rimane sulla carta. La legge non riesce a entrare in vigore e i cittadini assistono sempre più disincantati alla dura battaglia tra un potere economico privato e lo Stato che vuole una gestione plurale dell’informazione. L’alta concentrazione dei media in poche mani produce una lettura di parte e una continua distorsione sui fatti, specie oggi che ci troviamo alla vigilia delle elezioni per il rinnovo parziale di Camera e Senato (si vota domenica prossima). Tutte le previsioni indicano un indebolimento del kirchnerismo, anche se forse manterrà la maggioranza alla Camera e al Senato, rimanendo anche la prima forza politica.

Votata il 10 ottobre 2009 da un’ampia maggioranza in entrambe le Camere, la Ley de medios ha subito nel tempo ogni tipo di attacco da parte dei grandi media. In primo luogo il gruppo Clarín, che ha intrapreso una violenta campagna per delegittimare la norma e demolire ogni misura del governo di Cristina Fernandez Kirchner. Ha poi ingaggiato giuristi, avvocati e politici con l’obiettivo di bloccare e dichiarare incostituzionale la disposizione approvata dal Parlamento. Le misure cautelari si sono susseguite e hanno rimandato la sua applicazione fino a mettere in discussione, nei fatti, la reale capacità delle istituzioni di realizzare lo stato di diritto. Se la democrazia ha un senso è quello di affermare il diritto di fronte al potere di fatto. Quando lo Stato non riesce a difendere il diritto la democrazia diventa un esercizio vuoto. Al di là della contesa specifica, questa battaglia del governo di Cristina Kirchner rappresenta tutte le difficoltà che incontra la politica quando decide di scalfire il potere economico. La battaglia per la democratizzazione dei media ci dirà se a decidere sono le istituzioni o se invece lo Stato e i suoi tre poteri sono dominati da chi detiene le leve del potere economico e mediatico.
La legge, che sostituisce quella sancita negli anni della dittatura militare, dispone di ridimensionare i gruppi monopolistici in modo che rendano possibile la concorrenza; di riconoscere le attività audiovisive come d’interesse culturale pubblico essenziale allo sviluppo; di contenere la presenza di capitale straniero nelle aziende del settore fino ad un 30%; di limitare lo spazio pubblicitario; di consegnare frequenze a istituzioni di governo (province, municipi, quartieri); di cedere un terzo delle frequenze ad associazioni senza fini di lucro; di dare spazio alle università per usufruire di canali di comunicazione per attività scientifiche.
In sintesi, vuole liberare l’informazione dal ricatto dell’audience e della pubblicità per promuovere la cultura. L’importanza politica ed economica che hanno raggiunto i media in ambito globale è oggi tale che la costruzione, ricostruzione o manipolazione della realtà rende difficile capire i fatti. È necessario regolare il settore confrontando le notizie, diversificando le fonti per evitare il diktat delle grandi agenzie internazionali.
Il 29 agosto scorso Frank La Rue, relatore delle Nazioni Unite sulla libertà di espressione, ha riconosciuto che la Ley de medios argentina «ha stabilito le basi per un processo di democratizzazione dell’uso dei mezzi audiovisivi». Ha inoltre sostenuto che essa difende la diversità e la pluralità, «di modo che la popolazione possa costruire un pensiero proprio e sviluppare la libertà di opinione, perciò è necessaria la diversità di mezzi di comunicazione».
Il gruppo Clarín non è della stessa opinione: infatti ha la proprietà di cinque giornali, la società Artear che gestisce Canal 13 di Buenos Aires e via cavo Todo Noticias, DyN Diarios y Noticias, Magazine, Canal Rural, Metro ecc.; Cablevision che gestisce oltre 200 concessioni di radio, televisione, providers, riviste e case editrici. Clarín, consolidatosi insieme a La Nacion durante la dittatura militare, rimane il principale gruppo di pressione del Paese.

In Argentina, dopo la terribile crisi che portò al fallimento del dicembre del 2001, c’è stato un decennio di crescita economica senza precedenti. Primi protagonisti di questo successo sono stati i Kirchner, prima Néstor e poi Cristina, che dal marzo del 2003 hanno guidato l’Argentina verso un progressivo miglioramento. Quella società civile che si era compattata per fare fronte alla grave emergenza economica, sociale e politica si trova oggi scissa in due contrapposte e agguerrite posizioni. Le conseguenze di questo lungo braccio di ferro ha avuto effetti devastanti per il Paese, che si trova con pareri contrapposti su tutto quanto accade. La storia argentina non depone bene di fronte a questi conflitti e il rispetto delle istituzioni e delle regole democratiche dovrebbero coinvolgere tutti, al di là delle politiche dei singoli governi.
Anche i media internazionali non riescono a capire cosa veramente succede in Argentina. La loro percezione presuppone una scelta: o si accoglie il punto di vista dei grandi media globali, che in modo corporativo difendono la loro posizione di privilegio o si segue la stampa indipendente che prova a svincolarsi dalla morsa economica. Ovviamente la prima ha più mezzi per farsi ascoltare.
Per uscire da questa diatriba, forse può essere utile consultare i dati dell’Undp (United Nation Development Programme), l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa dello sviluppo. Nel suo Report 2013 sull’Argentina dell’Indice di sviluppo umano indica nel 1996: 0,785; nel 2001: 0,798 e nel 2011: 0,848 (il valore teorico massimo è 1). Cifre che l’organismo confronta con l’[Indice di disuguaglianza sociale, indicatore che pondera l’intensità delle carenze. Anche qui i dati registrano una maggiore equità, in quanto diminuisce il divario che dal 4,9% nel 2001, scende al 4,3% nel 2006 e al 3,4% nel 2011. Secondo uno studio della Banca Mondiale pubblicato a novembre 2012, la classe media argentina, che nel 2003 rappresentava il 24% della popolazione, nel 2009 passò al 46% registrando un incremento da 9,3 a 18,6 milioni di abitanti, in termini relativi il più significativo in America Latina durante il periodo in esame.
I governi di sinistra o centro sinistra dell’America Latina sanno che i problemi nazionali non sono più tali: o si procede insieme o si ritorna ad essere l’area protetta dal grande fratello del nord. È qui che arriva la solidarietà degli altri paesi. Qualche mese fa Rafael Correa, presidente del Ecuador, durante una visita in Argentina ha dichiarato che «la presenza di monopoli mediatici di proprietà familiari e la loro arrogante ingerenza nella politica rende la situazione in America Latina preoccupante». Anche Evo Morales, in un recente viaggio a Buenos Aires, ha voluto sottolineare l’importanza della sanzione della Ley de medios dichiarando: «Non sono un esperto in comunicazione, ma sono qui per mostrarvi come i popoli siamo vittime dei diversi mezzi di comunicazione».
Anche l’ex presidente del Brasile Lula da Silva e poi l’attuale mandataria Dilma Rousseff si sono recati a Buenos Aires per esprimere il suo appoggio a Cristina Kirchner nella sua campagna per regolare lo strapotere dei media e più in generale per manifestare l’appoggio del Brasile alla linea dei Kirchner. Negli ultimi anni l’America Latina ha manifestato in più occasioni la necessità rafforzare continuamente i legami tra i popoli.
«Nel mondo esistono grandi concentrazioni di potere mediatico: Berlusconi in Italia, Rupert Murdoch con News Corp. negli Stati Uniti – affermava lo scorso anno il filosofo Ernesto Laclau – ma negli ultimi anni si sta cercando di evitare questa concentrazione. La legge che ha approvato il parlamento argentino è uno strumento di primordine. Non si può perdere questa battaglia».