Il pressing di Confindustria è ogni giorno più forte. Corroborati dai dati leggermente positivi della pandemia, gli industriali spingono per «riaprire il prima possibile». E se nelle grandi aziende devono fare i conti con le richieste dei sindacati, le piccole hanno molto meno problemi. Già ieri mattina moltissime hanno riaperto sfruttando il «silenzio assenso» dei prefetti, deputati dall’ultima versione del Dpcm sui «settori essenziali» a decidere – sentiti i sindacati – se accogliere o meno la richiesta di deroga rispetto all’elenco dei settori. In media una prefettura non riesce a valutare più di qualche centinaio di deroghe al giorno, un cucchiaino nel mare delle migliaia di richieste.
In prima fila nel coro di chi vuole riaprire c’è l’attuale vicepresidente e candidata sconfitta – da Carlo Bonomi – al nuovo vertice di Confindustria, Licia Mattioli: «Bisogna tenere conto dei posti di lavoro che rischiano di essere bruciati per sempre. Stiamo proponendo di riaprire, tenendo conto delle filiere, delle regioni che sono più o meno impattate dal virus, delle misure di sicurezza in azienda». Cercando in archivio si trovano dichiarazioni simili risalenti all’8 marzo: in pratica Mattioli da un mese è un disco rotto, si è fermata solo nelle settimane più brutte quando però Confindustria non ha mancato di mandare una lettera al presidente Giuseppe Conte per aumentare il numero dei settori «essenziali» a dismisura.
La posizione dei sindacati è ferma: «Riapriremo solo quando ci sono le condizioni – dicono Cgil, Cisl e Uil – sarà la comunità scientifica a dirci quando e come poter affrontare con serietà l’argomento».
Capofila nell’esaudire i desiderata di Confindustria è certamente il Veneto dove anche il presidente Luca Zaia da giorni lavora al «piano delle riaperture». Il numero di deroghe richieste qua è il più alto d’Italia: se giovedì eravamo a quota 12mila, ieri erano già 15mila. Già per ieri i sindacati stimavano almeno centomila addetti richiamati al lavoro in regione.
Notizie di riaperture però arrivano da tutta Italia. Molto pesante la riapertura delle acciaierie Ast ThyssenKrupp di Terni. La proprietà tedesca ha chiesto la deroga al prefetto che sabato l’ha concessa. Le Rsu sono riusciti a ritardare l’apertura per riorganizzare la produzione a domani e per fortuna non torneranno tutti i circa 4mila lavoratori tra diretti e indotto. L’azienda punta al 50% della capacità, «così da alimentare, anche indirettamente le filiere dei prodotti essenziali e rispondere alle richieste provenienti da clienti di settori strategici globali, testimoniate da lettere provenienti da tutto il mondo». Ma Cgil, Cisl e Uil bollano come «molto pericolosa» la riaperture dell’Ast: «Serve una ripartenza progressiva, solo in questo modo si potranno contenere i costi sociali ed economici della pandemia».
Rimanendo alle acciaierie, se a Taranto ArcelorMittal litiga col prefetto, a Genova invece spinge per riaprire. Cornigliano era fermo dal 23 marzo, ha riaperto ieri: avvio graduale del ciclo della banda stagnata per la produzione delle lattine per l’industria alimentare: 60 persone su tre turni – più gli impiegati in smart working – per arrivare progressivamente a 200 addetti il 20 di aprile.
A Cuneo invece è ripresa dopo tre settimane di stop la produzione di pneumatici dello stabilimento Michelin di Cuneo, uno dei principali in Europa della multinazionale francese. L’azienda aveva chiesto 4 settimane di cassa integrazione – dal 16 marzo all’11 aprile – ma ha scelto una ripartenza graduale «dedicata alla produzione di pneumatici per servizi e attività essenziali», come ambulanze, veicoli della sanità, mezzi militari, forze dell’ordine, furgoni per il trasporto di alimentari. In fabbrica meno della metà degli oltre 2.200 dipendenti, divisi sui tre turni.