Confindustria è forse l’ultimo interlocutore a poter rimproverare i tentennamenti dei sindacati nella lotta contro la pandemia. Che a Confindustria la salute interessi meno che la produzione è stato evidente anche lo scorso marzo: i settantenni non avevano ancora iniziato a vaccinarsi ma Confindustria Lombardia si era già accordata con la regione per creare un canale parallelo a quello pubblico per somministrare le dosi in azienda, in barba a ogni valutazione di sanità pubblica. D’altra parte, Confindustria che oggi descrive il green pass come strumento necessario per lavorare in sicurezza è la stessa che ha mal tollerato gli inviti alla prudenza. Soprattutto nelle fasi peggiori della crisi sanitaria.

Il 28 febbraio 2020, mentre il focolaio italiano era già scoppiato, la Confindustria di Bergamo lanciava ad esempio un allegro video intitolato #Bergamoisrunning destinato a rassicurare i partner internazionali che nella zona «tutte le aziende sono in attività». Nel video si usavano le stesse parole oggi care ai No Vax: in Italia, recitava, «si fanno più test che in altri paesi, dando l’errata sensazione che vi sia un tasso di infezione più elevato». Mentre il direttore generale Paolo Piantoni sconsigliava di «diffondere sui mezzi di informazione una percezione distorta che rischia di danneggiarci». Non ce n’è coviddi.

Non fu un momentaneo errore di valutazione. Pochi giorni dopo, quando era ormai chiaro che in Val Seriana stava per abbattersi la peggiore ondata pandemica d’Europa, gli industriali si opposero alla “zona rossa” chiesta dal Comitato tecnico scientifico, che poi infatti non arrivò. La Confindustria che oggi accusa i sindacati di inseguire le teorie no vax è la stessa che, per bocca del presidente lombardo Marco Bonometti, attribuiva il contagio alla «movimentazione degli animali», e non ai contatti umani. Forse l’origine del coronavirus non andava cercata tra i pipistrelli di Wuhan ma nelle porcilaie di Cologno al Serio.

La lotta contro i controlli è stato un mantra dell’azione confindustriale. Quando tra marzo e aprile 2020 l’Italia toccava i mille morti al giorno e i droni inseguivano chi faceva jogging sulle spiagge, l’allora presidente di Confindustria Vincenzo Boccia premeva sul governo affinché i Dpcm del lockdown bloccassero runner, ma anche bambini, mamme, anziani rinchiusi nelle Rsa: tutti tranne le imprese, in cui si poteva evidentemente lavorare in sicurezza anche senza vaccino.

Boccia fu accontentato: anche durante il lockdown più duro, bastava autocertificare che la propria attività era «essenziale» e «sicura» per tenere aperto. Anche senza green pass. Risultato? Il 55% delle aziende rimase aperto durante il lockdown (dati Istat). E tra quelle con più di 250 abitanti, le più care a Confindustria, chiuse solo il 15%. Confindustria raccoglie dunque quel che ha seminato per un anno e mezzo: chi raccontava che le fabbriche erano sicure anche quando nessuno era vaccinato e i controlli latitavano, oggi non ha alcuna credibilità per alzare la voce contro chi non vuole il green pass.