Non vi è processo della storia antica greco-romana che possa competere per fama con quello a Socrate, svoltosi ad Atene nel 399 a.C. Molta della importanza attribuita in seguito a questo evento è legata alla conseguenza diretta della condanna con cui esso si concluse: la morte del filosofo, costretto a bere la cicuta in carcere, dopo aver conversato, pacatamente e a lungo, sull’immortalità dell’anima con amici e discepoli, secondo l’indimenticabile immagine che ci regala il Fedone di Platone. Questa morte affrontata con tanta serenità e compostezza diventerà un modello per tanti altri intellettuali in conflitto con l’ordine politico esistente: da Catone Uticense, che dopo la vittoria di Cesare si mette a leggere il Fedone per prepararsi al suicidio, a Seneca, che per sottrarsi a Nerone sceglie volutamente la cicuta e sembra voler imitare Socrate.
Ma il carattere esemplare della morte di Socrate agli occhi di chi è o si sente perseguitato assurge quasi a motivo topico dalla lunga durata, oltrepassando il mondo greco e romano. Esso viene avvertito anche dai martiri cristiani intorno al 200 d.C.; per primi essi la accostano alla morte di Gesù Cristo, dando avvio a un uso cristiano della figura socratica, che si estende fino all’epoca tardoantica, per poi riemergere in epoca umanistico-rinascimentale e sfociare nella preghiera coniata da Erasmo: «Sancte Socrates, ora pro nobis!». Più avanti Hegel vede in Socrate colui che rompe l’unità di soggetto e oggetto nella polis arcaica, scoprendo la coscienza soggettiva e fondando la teoria morale; Hegel lo tiene distinto da Cristo figlio di Dio ma lo accomuna a lui proprio per la morte, causata in entrambi i casi dal carattere rivoluzionario del loro messaggio, capace di sconvolgere valori e princìpi consolidati.
L’enorme fortuna simbolico-esistenziale della morte di Socrate ha finito talvolta per mettere in secondo piano la ricostruzione storico-fattuale, che negli studi specialistici è da tempo piuttosto vivace, con tesi discordanti. Ci aiuta ora a fare il punto della situazione Mauro Bonazzi con Processo a Socrate (Laterza «i Robinson / Letture», pp. 172,euro 18,00), un’indagine ben condotta tra le fonti antiche, con uno stile limpido che consente una lettura agevole sia al lettore non specialista sia al lettore erudito, che può rintracciare nell’ampio apparato di note tutti i ragguagli sulle fonti primarie e secondarie, puntualmente citate, senza alcuna faciloneria. Bonazzi contestualizza anzitutto il processo nell’ambito del sistema giudiziario dell’Atene classica, che una lunga tradizione risalente ai critici della democrazia (come Platone) ha dipinto come arbitrario mentre è invece caratterizzato da un alto tasso di organizzazione, da procedure molto formalizzate volte ad assicurare sia i diritti dell’accusato sia il dovere della comunità di far rispettare le leggi in vigore; procedure rispettate anche nel caso di Socrate.
Ma quali erano le accuse? Formalmente, di empietà e di corruzione dei giovani; tuttavia fin dall’antichità si è spesso sospettato che altre fossero le vere ragioni dell’accusa, ragioni politiche: l’attacco a Socrate nascerebbe dalla sua amicizia con i nemici della democrazia, in particolare con quegli oligarchi che pochi anni prima, dopo la catastrofica fine della guerra con Sparta, avevano preso il potere per un breve periodo con abusi e violenze rimaste nella leggenda nera (di qui l’epiteto di Trenta tiranni). Le precise analisi di Bonazzi dimostrano che se esistono delle affinità tra le critiche alla democrazia di Socrate e quelle degli oligarchi, tuttavia costante e coerente fu l’autonomia del filosofo rispetto alla lotta tra le fazioni, per cui la chiave politica appare improbabile. Le accuse vanno perciò prese alla lettera: è contro l’idea consolidata e condivisa del divino che va a cozzare la riflessione religiosa sia di Socrate sia di altri pensatori condannati o esiliati da Atene nella seconda metà del V secolo. D’altronde l’empietà è anche uno degli aspetti messi alla berlina nella caricatura di Socrate inscenata dal comico Aristofane nelle Nuvole, assieme al ruolo di cattivo maestro della gioventù, che lui educava a sottoporre ad esame i valori tradizionali.
Ma se si può capire come siano sorte le accuse, perché mai il processo si chiude con la condanna a morte? L’ipotesi qui formulata è che «il responsabile principale della condanna a morte sia stato proprio Socrate», il quale avrebbe irritato i giurati con la propria intransigenza fino a provocarli apertamente sulla questione della pena da comminare, che non era per nulla scontato dovesse essere quella capitale. Se la condanna del filosofo è quasi sempre interpretata come un fallimento della democrazia, incapace di ascoltare chi la contraddice, essa segna forse anche un fallimento della filosofia, incapace di farsi ascoltare.