La data è il 26 gennaio 1994: quando le tv trasmisero il videmessaggio registrato dal Cavalier Silvio Berlusconi il giorno prima nella villa di Macherio. Annunciava la sua «discesa in campo» alla testa di un partito nuovo di zecca e non fu una sorpresa per nessuno.

Sorprendente, perché mai usato prima, era il metodo, quel videomessaggio studiato da chi ci sapeva fare con la pubblicità più che con la politica. Impensabile era il prodotto che stava per inondare la cittadella della politica: un partito a misura di leader, calibrato sulle attese degli elettori-acquirenti, pensato in tutto e per tutto in base a una logica di mercato.

Quel giorno nella politica italiana cambiò tutto.

CAMBIAVA LA FORMA. Da un momento all’altro la comunicazione politica della prima Repubblica diventò preistoria. Non c’è partito, oggi, che non si attenga alle regole dettate allora da Silvio Berlusconi, con il leader che fa da testimonial, la propaganda intesa come smercio di un prodotto politico e dunque giocoforza urlata, l’uso e l’abuso dei videomessaggi, pur se non più veicolati dalle arcaiche videocassette.

La forza immensa di Berlusconi, la sua più sostanziale vittoria, è stata condizionare gli avversari, modellarli su se stesso nella formula uguale e contraria ma perdente dell’“antiberlusconismo”, costringerli a tallonarlo in modo da rappresentare sempre il centro del quadro politico, quando era al governo ma anche quando era all’opposizione.

Cambiava anche la sostanza. Nell’Italia repubblicana la destra non c’era mai stata. Campava a stento, relegata all’angolo.

La destra in Italia è un’invenzione e una creazione di Berlusconi. La mise insieme accostando forze politiche incompatibili, arruolando personale politico da ogni dove, ramazzando qualche figura pubblica e molti ignoti.

C’era il Msi di Gianfranco Fini, sul punto di trasformarsi in An ma ancora tanto impresentabile da dover entrare di straforo, con un solo ministro, nell’esecutivo che si formò dopo la vittoria nelle elezioni del 27 marzo. C’era la Lega di Umberto Bossi, che però si dichiarava antifascista e con Fini non voleva avere niente a che spartire: al Cavaliere toccò sdoppiare le coalizioni, una a nord con la Lega ma senza il Msi-An, l’altra a sud con Fini e senza Lega. C’erano gli scissionisti della Dc capitanati da Casini, con un partitino tanto esiguo che per farli eleggere Berlusconi dovette ospitarli nelle sue liste ma l’uomo, da questo punto di vista, è sempre stato generoso.

LA FORMAZIONE di quella destra, anzi di questa destra dato che capita governi ancora oggi, non è stata semplice né rapida. Il primo governo Berlusconi, si sa, franò dopo pochi mesi abbattuto da Bossi nel dicembre dello stesso 1994.

Per riconquistare il governo a Berlusconi ci vollero oltre sei anni, nei quali mise da parte le velleità iniziali di dar vita a un “partito liberale di massa” e ripiegò sull’evocazione della Dc del 1948, così da cavalcare allo stesso tempo un diffuso anticomunismo sopravvissuto al comunismo stesso e un bel po’ di nostalgia.

LE TENSIONI in quella destra non si sono mai fatte mancare e neppure le conseguenti rotture. Con Bossi il Cavaliere aveva ricucito i rapporti già sul finire del millennio, in compenso si guastarono quelli con Casini, che uscì dalla coalizione prima delle elezioni del 2006, e poi, dopo la terza vittoria nel 2008, anche quelli con Fini, in modo particolarmente esasperato perché Berlusconi era capace di passare sopra dissensi e divisioni, non su quelli che considerava tradimenti.

Ma proprio il fatto che nonostante scossoni di tale portata la destra sia dopo trent’anni ancora la stessa, pur con equilibri diversi e senza più Forza Italia a fare da asse centrale, consiglia di non puntare troppo sulle “divisioni della destra”. Ci sono. Ci sono sempre state. Ma la creatura di Berlusconi è sopravvissuta cambiando spesso pelle, soprattutto perché il mercato è famelico e chiede prodotti nuovi.

Il Polo delle Libertà (e del Buongoverno) diventò Casa delle Libertà nel 2000, giusto in tempo per le imminenti elezioni, poi Berlusconi annunciò nel 2007, senza neppure consultare Fini, l’unificazione tra Fi e An, per fare il pieno nelle urne del 2008 con il Popolo della Libertà.

Scatole diverse, contenuto identico. Nei quasi vent’anni delle sua età dell’oro, Berlusconi ha venduto sempre la stessa promessa: quella di tenere a freno lo Stato, impedire che esercitasse controlli, esigesse tasse, imponesse regole, si intromettesse soprattutto negli affari del ceto medio e medio basso, i più esposti.

LE SUE CAMPAGNE anticomuniste sembravano una parodia ma erano un messaggio in codice: a una popolazione che nei confronti dello Stato è sempre stata diffidente, che ha sempre considerato lo Stato un nemico da aggirare e ingannare, la destra di Berlusconi prometteva tolleranza e tacita complicità.

Salvini, Berlusconi e Meloni alla chiusura dell’ultima campagna elettorale nel 2022

Nell’ultimo scorcio della sua parabola umana e politica il Cavaliere aveva rimodellato il suo partito-strumento riadattandolo alle circostanze, ne aveva fatto la componente moderata ed europeista della coalizione, in realtà contraddicendo quel che Fi era stata negli anni del trionfo. Ma su questo punto non aveva cambiato una virgola, disposto alla rottura anche con Draghi per impedire la revisione del catasto.

Quella complicità con chiunque volesse sfuggire alle maglie dello Stato Berlusconi la metteva in scena, la recitava, ne aveva fatto la cifra del suo stile e la chiave del suo successo: la bacchetta magica che gli permise il miracolo del 2006 quando, grazie a una campagna elettorale combattuta praticamente da solo e tutta sul fronte delle tasse, riuscì a rimontare uno svantaggio che pareva incolmabile e a vanificare di fatto la vittoria di stretta misura di Prodi.

Il gioco gli riusciva facilmente perché quella era anche la sua visione della società e del ruolo dello Stato. Quella di Meloni, la nuova leader, è una cultura molto diversa, per certi versi anche più temibile. La sua destra potrebbe diventare molto diversa da quella del fondatore scomparso ieri.