Odilon Redon a Parigi, nell’appartamento di 129, avenue de Wagram, circa 1908
Andries Bonger, circa 1910
Odilon Redon, “Paravent rouge”, 1907-’08, Otterlo, Kröller Müller Museum, già nella collezione di Andries Bonger

Odilon Redon: già nella storica monografia di Roseline Bacou (1956, ed. Pierre Cailler) si deduceva la centralità, nella vita del visionario bordolese, dei suoi collezionisti, con i quali stabilì quasi sempre un rapporto di mutuo scambio quando non di vera intimità e amicizia. Tutto intramato, quel libro, di testimonianze epistolari spesso inedite – cui la studiosa aveva accesso quale nipote di Gustave Fayet, che dell’artista era stato uno dei grandi collezionisti «meridionali» –, è attraverso i carteggi che conosciamo il sapore di questi rapporti: Redon fu sommo scrittore laterale (critico, diarista, epistolografo), ed essi disegnano una serie di spaccati morali del riconoscersi e dell’affidarsi.
Gli amatori coevi dell’opera di Redon definiscono un preciso tipo nella scena artistica del tardo Ottocento francese e nord-europeo, in cui la segretezza e distinzione di quell’avventura estetica trovava una sponda sociale determinante. Se il primo atto della scoperta tardiva di Redon è nelle pagine di Huysmans À rebours (1884), nell’inumana liturgia collezionistica del personaggio Des Esseintes ipnotizzato dai Noirs, che fissa emblematicamente i termini del processo di spiritualizzazione dell’opera d’arte, le figure storiche dei suoi collezionisti, pur protagoniste di questo processo, ne stemperano la tensione vertiginosa e decadente con la singolarità umana del proprio temperamento.
È all’inizio degli anni novanta (Ottocento) che l’opera di Redon, già cinquantenne, comincia a occhieggiare in un milieu più allargato. La prima esposizione monografica data marzo 1894, da Durand-Ruel. Paradigmatica la tela su cartone Yeux Clos, che è del 1890, Odilon sta uscendo dalla stagione dei Noirs, fatta di crisi, ricerca e isolamento. Gli aspri carboncini popolati da incubi lasciano il campo al colore, con cui egli stabilirà la finezza della sua astrazione decorativa e la seconda vita del suo operare. Si volge verso il pastello, «con la speranza – scrive nel ’94 – di dare ai miei sogni più esteriorità». Meno ‘impaurito’ dal «silenzio eterno degli spazi infiniti», ma pur sempre implicato nella gravità dell’esistere che lo porterà, 1895-’98, faccia a faccia con il Cristo, il colore «al massimo del suo ardore» (Bacou), Redon, divenuto padre per la seconda volta dopo la straziante perdita, infante, del figlio Jean (Arï è il nuovo venuto, 1889), appare più integrato socialmente. Cominciano i primi riconoscimenti di un’arte pur sempre esclusiva, ardua, che resta isolata rispetto alle correnti più in voga, l’impressionismo e persino il divisionismo.
Difficile, a Parigi, trovare un pubblico per il bianco e nero delle sue incisioni su pietra, radicale, senza mescolanze. A Redon, in questa congiuntura, la comprensione piena viene da Settentrione: Belgio, Olanda. «Una buona stampa sarà apprezzata maggiormente in paesi austeri come le regioni del Nord, dove la natura poco clemente costringe l’uomo a isolarsi in se stesso, a coltivare il proprio pensiero, che in quelli meridionali, dove il sole ci rende estroversi e ci incanta» (Redon, 1913). L’esordio dell’artista nella litografia era stato immediatamente successivo, del resto, al primo viaggio settentrionale, estate 1878: ad Amsterdam fu risucchiato dalle acqueforti di Rembrandt, alle quali lo aveva introdotto, nel periodo di formazione, il venerato Bresdin, ma che ora gli si presentavano, in tutta la loro abbondanza e varietà, come «un’epopea».
Il Belgio fu terra d’elezione per il simbolismo nascente: nell’avanguardia brussellése dei XX, Odilon trova il riscontro sempre cercato, che s’incarna in figure, attive in politica, arte, letteratura, come Camille Lemonnier, Edmond Picard, Jules Destrée. In particolare il giureconsulto e letterato socialista Picard, oltre a essere il suo primo mecenate, offrì a Redon l’occasione pubblica di una ‘confessione’, che è il nucleo generativo del capolavoro autobiografico, postumo, À soi-même (1922, ed. ital., Abscondita, 2004). Si tratta di una lettera, sorprendente per la fermezza di visione, per lo stile semplice e laconico, sollecitata da Picard nel giugno 1894, in vista di una conferenza sull’artista. Occasione, la mostra all’Aja, che segue di poco quella parigina, organizzata dal pittore olandese Jan Toorop e da colui che possiamo considerare, in parallelo al barone Robert de Domecy, il primo collezionista ‘in grande’ di Redon: Andries (André) Bonger.
Andries amico di Théo
Nato ad Amsterdam nel 1861, Bonger incontrò per la prima volta Redon, maggiore di vent’anni, a Parigi, l’8 novembre 1891, intermediario Émile Bernard, che aveva conosciuto l’anno prima al funerale di Vincent van Gogh. Parigina era stata la giovinezza di Bonger: di professione agente assicurativo, vi aveva sposato, nel 1888, Annie, la prima moglie; sensibile all’arte contemporanea, si era legato al fratello di Vincent, Théo, antiquario da Boussod & Valadon, in un’intimità che era tutt’uno con la sua passione del collezionare – i moderni: van Gogh, Cézanne, poi Bernard e, appunto, Redon – e che fu suggellata, nell’aprile 1889, dal matrimonio di Théo con sua sorella, Johanna Gesina Bonger, detta Jo. Jo fu colei che, dopo la morte di Théo, avrebbe più contribuito a costruire la reputazione dell’opera di van Gogh.
Scomparso Andries nel 1936, la collezione sarebbe stata in parte dispersa dalla seconda moglie, Françoise, in parte acquisita dallo stato olandese (Museo Van Gogh). Le varie diramazioni della ricca vicenda biografica di Bonger sono state studiate da Fred Leeman, ma è l’intenso rapporto con Redon che qui interessa, in relazione all’uscita, per l’editore parigino Cohen&Cohen, sotto la superba direzione di Dario Gamboni e Merel van Tilburg, dell’epistolario fra i due (1894-1916): «San adieu» (due volumi in cofanetto – I. Correspondance, II. Études –, pp. 867, figg. 274, euro 85,00) – sans adieu è tipica formula di congedo in Redon. Erano anni che si attendeva di avere il quadro integrale di questi scambi, uno dei documenti più significativi dell’antropologia artistica nel passaggio tra Otto e Novecento, ma anche un titolo che solidifica lo statuto di scrittore di Redon.
Come risulta da una lettera di Camille, la moglie di Redon, a Bonger (1 ottobre 1919, tre mesi dopo la morte di Odilon) è proprio all’amico olandese che l’artista desiderava affidare la cura dei suoi scritti autobiografici, che videro poi la luce, 1922, sotto il titolo À soi-même. Bonger era stato destinatario, nel 1909, delle «confidenze» che introdurrano quel volume, di cui alla fine fu Camille a incaricarsi: egli, intimidito dal compito e gravato dagli impegni professionali, le lasciò il campo, ma la circostanza indica il totale investimento affettivo di Redon nei suoi confronti. Un’altra lettera di madame Redon a Bonger, 12 gennaio 1921: «È con voi che egli più amava discutere della sua arte. Sapeva bene che lo comprendevate, che la vostra sensibilità corrispondeva alla sua, in musica come in pittura o in letteratura. “Bonger capisce tutto ciò che è bello”, mi diceva spesso».
Senza dettagliare sulle intricate vicende che hanno differito così a lungo la pubblicazione completa (e perfettamente commentata) del carteggio, basti che il ritardo fu in gran parte dovuto al temporeggiare di Roseline Bacou, la quale, con la morte della vedova di Arï, il figlio di Redon, aveva raccolto nel 1982 gli effetti personali dell’artista, compresi gli archivi, oggi proprietà degli eredi Fayet nell’abbazia di Fontfroide (Narbona), dove sono conservate le lettere di Bonger – quelle di Redon, al gabinetto delle stampe del Rijksmuseum. Nella situazione di embargo, la concessione da parte del Rijks a pubblicare, nel 1987, alcune missive inedite di Redon, trascelte perlopiù fra quelle inviate a Bonger, inferse un colpo: la raccolta – che si aggiungeva alle Lettres d’Odilon Redon, edite dalla famiglia nel 1923, e alle Lettres à Odilon Redon, curate dalla stessa Bacou nel 1960 – era talmente manchevole sul piano filologico da consigliare, quanto prima, un’edizione critica dell’intero corpus, che solo oggi vede la luce.
L’impaginato del primo volume, con le illustrazioni referenziali dal nitido stampato, dà modo di partecipare visivamente agli scambi fra Redon e Bonger, che vertono spesso sull’invio e il recapito delle opere, e sulla maniera ideale di sistemarle. Redon è oltremodo sensibile all’incorniciatura: «Non ho scelto, per la barca, una cornice troppo pesante?… La modanatura Luigi XIV mi piaceva» (la Barque, nues-fleurs, circa 1904). L’artista si fida dell’encadreur parigino Jean-Marie Boyer, e le opere spedite a Bonger portano spesso le cornici di quella maison, documentate anch’esse nelle riproduzioni. Gli aspetti tecnici partecipano del culto dell’arte così come quelli ambientali. «L’interno che è l’immagine del vostro pensiero» (Bernard a Bonger, 1895): l’olandese ha preso l’abitudine di inviare a Redon, che se ne compiace, le fotografie (Van Meurs & Co.) dei suoi allestimenti domestici. Il dato è rilevante per un collezionista dalla spiccata sensibilità decorativa, che infatti recepisce nel modo più sofisticato il progressivo addentrarsi di Redon in questa sfera, via colore: ecco la stanza di Stadhouderskade 56, 1904, con il grande Panneau décoratif, dipinto due anni prima, la cui impalpabilità floreale sconfina nell’astrazione. A proposito del successivo Paravent rouge, ispirato a Redon da un’impressione estiva in montagna, egli scrive a Bonger, marzo 1908, di «una sorta di Chaos sulle cime, percepito attraverso raggi amorfi di luce». Opere del genere colpiranno Duchamp: «… del colore soltanto: senza forma né rappresentazione» (1927).
Così, se gli acquisti iniziali di Bonger furono all’insegna del monocromo – i primi, da Durand-Ruel nel ’94: due fusains e cinque litografie –, pur restando devoto a queste corde, in cui avvertiva tutta la lunare interrogazione dell’animo nordico, egli si aprì via via alla produzione cromatica del secondo Redon, al punto che questi, nel 1906, potrà considerare la collezione dell’amico, ultimata circa quell’anno, come la più «varia» e «completa».
Odilon in una delle prime lettere ad Andries: «Sono nato nel Midi, con un filo d’anima nordica». La Bordeaux dei suoi natali era una delle porte del Sud, ma nella prima parte della sua vita, incardinata sulla tenuta paterna di Peyrelebade, nel Medoc, non furono tanto i caratteri meridionali di quel paese (la vigna) a corrisponderlo, quanto la piatta desolazione della Landa, che lo stregava orientandolo verso qualcosa di più simile al Nord. Negli scambi con Bonger il motivo geografico e metereologico è una costante, enucleata quale problema culturale in un fine saggio fra quelli annessi all’epistolario: lo firma Pierre Pinchon. In giovinezza Redon, ammiratore di Leonardo, si era sottratto al viaggio in Italia, per non «rischiare, nella patria dei maestri, di cadere… in pura contemplazione», come scrisse nel 1874. Una posizione simile egli la ritrova in Rembrandt, il cui «grande stile», noterà nel 1909, origina dalla «stagnazione di una vita tranquilla».
I grandi viticoltori
Pinchon parte di qui per analizzare, in relazione a Bonger, a sua volta acutamente sensibile allo spirito dei luoghi, i termini di un rapporto contrastato, inquadrandoli nella «teoria dei climi» e nella prospettiva deterministica propri di un’epoca che vide l’affermazione di Taine. Il colore corrispose, per Redon, a un’emancipazione ambientale, a una riconquista del Sud, contrassegnata dall’insediamento estivo a Saint-George-de-Didonne (Charente Maritime), seguito alla dolorosa perdita di Peyrelebade, e dai viaggi in Italia e in Costa Azzurra (1900-’01), oltreché dai rapporti di amicizia con i collezionisti del Midi, i grandi proprietari viticoli Maurice Fabre, Gustave Fayet, Gabriel Frizeau e Jules Chavasse. Un’emancipazione a cui partecipa, trepidamente, il collezionista nordico Bonger, che riesce nel progetto tanto accarezzato di sottrarsi, sospensivamente, all’«umidità» e alla «povertà» del suo «angolo di Olanda», responsabile, sostiene, della sua «tristezza»: i viaggi in Francia meridionale e in Italia, il soggiorno dai Redon nella solare Saint-George (estate 1905), implicano per lui un «tropismo mediterraneo» (Pinchon). Eppure in una lettera a Odilon del gennaio 1905 sostiene di comprendere meglio, ripensando alle serate sul Lago Maggiore, l’«apprensione» ispirata all’artista, in gioventù, dall’idea della discesa in Italia, paese la cui «dolcezza infinita» libera «in noi del Nord sensazioni latenti», che turbano: sicché «è pericoloso strappare un essere umano alle sue origini».
L’opportunità di un impiego assai redditizio presso una compagnia di assicurazioni marittime aveva costretto Bonger a lasciare Parigi nel gennaio 1892: rientrò ad Amsterdam, stabilendosi a sud-est della capitale. La corrispondenza con Redon ha inizio il 6 maggio 1894 e terminerà meno di un mese prima della morte dell’artista, caduta il 6 luglio 1916. La lontananza geografica, appena colmata dai pochi incontri, alimenta e dà spessore psicologico allo scambio. Bonger, lontano da Parigi, città che gli aveva rivelato la vocazione di amateur, è una specie di esiliato, appesantito da obblighi professionali che, se lo distraggono dalle cure della collezione, gli permettono tuttavia una base economica per arricchirla via via e concedersi dimore sempre più spaziose atte a ospitarla.
Il ritratto a sanguigna di Bonger, disegnato da Redon nel 1904, «ci mostra – ha scritto la Bacou – un volto spiritualizzato d’una finezza che faceva lo charme dell’intera persona e che si riflette nei suoi scritti». In effetti l’epistolario è un viaggio innanzitutto spirituale, nutrito dalla comune disposizione melanconica, da una ricerca oltremondana, ma aperta e interrogativa, un misticismo laico che si sottrae al sigillo confessionale: Redon ricusa il proselitismo dei convertiti, Huysmans, Frizeau…
Musica e astrazione
«I vostri disegni li amo sempre più, e la sera, troppo affaticato per leggere, li guardo lungamente», scrive Bonger il 31 dicembre 1894, quando la sua raccolta ancora non conta che pochi numeri. Que voyait Andries Bonger en Redon?, si chiede nel suo saggio Leeman: «L’arte di Redon possedeva in effetti le sue proprie leggi ed era creata – così Bonger – “indipendentemente da tutte le forme preconcette”». Un motivo ricorrente nelle lettere è infatti la comparazione con la musica – Franck, Beethoven, Wagner… –, il cui carattere astratto suggerisce i termini di una lingua figurativa che tende oltre se stessa, concepita, immagina Bonger, «guardando il cielo scintillante di stelle», cullandosi nella «musica delle sfere». Questo sentire trovava riscontro nella realtà interiore di Redon, che, profondamente persuaso dell’autonomia plastica delle immagini, rigettava l’approccio letterario ai Noirs, la favola dei mostri come l’aveva concepita Huysmans e come sarà divulgata dai surrealisti.
«Che farei, mio Dio, se non avessi qualche opera d’arte capace di trasportare il mio spirito altrove!»: collezionare comporta per Bonger una relazione con l’opera profonda e continuata nel tempo. Questo filtraggio meditativo, che proietta le pareti di casa in uno spazio mentale ‘superiore’, fa dell’assicuratore di Amsterdam una specie di «pioniere per tutti gli amatori di arte moderna», scrive Leeman: «Redon rappresentava per lui una figura profetica… era onnipresente nella sua vita: “Io non vivo sensazioni profonde senza che la vostra figura si erga davanti a me”».