Quando nell’aprile del 2018 il giudice Sergio Moro condannò al carcere Lula da Silva, lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosas lo esaltò dalle colonne del giornale spagnolo El País come «un modello (di giudice) esemplare per il resto del pianeta». Poco importavano le denunce di grossolane violazioni commesse nel processo per eliminare dalla scena politica l’ex presidente brasiliano: la dichiarazione del «gran difensore» della democrazia e del neoliberismo latinoamericano (ma non dello Stato di diritto) furono riprese da decine e decine di giornali del subcontinente.

Era la riscossa contro il politico che, nel gigante dell’America latina, aveva dato inizio alla «marea rosa», l’insieme dei governi progressisti che, almeno fino a sei anni fa, si erano imposti nei maggiori paesi dell’America del sud. La riscossa aveva il maleodore della vendetta, realizzata usando come clava i giudici: il lawfare, la via giudiziaria in sostituzione del golpe, che aveva funzionato in anche in Argentina (contro Cristina de Kirchner), Honduras (Zelaya), Paraguay (Lugo) e più recentemente in Ecuador (Correa).

Lunedì un giudice del Tribunale supremo del Brasile ha annullato tutte le condanne per corruzione contro Lula riguardanti il caso di mega-corruzione Lava Jato. E martedì Gilmar Mendes, un altro giudice del medesimo Tribunale, ha chiesto la sospensione di Moro e il ritiro di ogni accusa contro l’ex presidente brasiliano. La decisione finale è stata rimandata. Ma in ogni caso Lula ritorna a pieno diritto protagonista della scena politica brasiliana. E a rischiare la gogna e il carcere è il «giudice modello esemplare» di Vargas Llosa.

La seduta del Tribunale supremo è stata trasmessa in tv, come pure la notizia che i morti per Covid-19 del giorno avevano sfiorato quota 1800, quasi 75 morti ogni ora, più di una vittima al minuto. E con la previsione che i morti raggiungano in Brasile il tetto di 3000 al giorno a fine mese.

È l’altra «fotografia» delle conseguenze della sentenza di Moro che, del tutto intenzionalmente, aveva eliminato Lula dalla contesa per la presidenza e portato alla elezione di Jair Bolsonaro. L’ex capitano che inneggiava alla tortura, è diventato il presidente negazionista. Anche in queste tragiche giornate ripete i suoi torbidi refrain, basta con le lacrimucce, basta con le mariconadas (frocerie), bisogna lavorare.

Segue così a ignorare quello che dicono i medici – ovvero che si adottino misure urgenti di contenzione del Covid -19 «prima che il Brasile si trasformi in un laboratorio a cielo aperto per la creazione di nuove mutazioni del virus» – e assicura che l’Oms non è altro che un organo controllato dalla Cina comunista.

I primi sondaggi affermano che Lula è l’unico candidato dell’opposizione capace di entusiasmare la gente e battere l’attuale presidente (appoggiato da una forte componente dei movimenti neo-evangelici e sostenuto dai militari), se vorrà candidarsi alle presidenziali del prossimo anno. Il Brasile respira. E anche l’America latina respira.

Il fallimento delle politiche neoliberiste dei governi di destra che negli ultimi cinque anni si sono imposti, sia con metodi democratici, sia (Brasile, Bolivia) non democatici, può concedere una seconda opportunità a coalizioni progressiste e/o a forze di sinistra in America latina. Il processo è iniziato (2018) con l’elezione di López Obrador come presidente del Messico, seguito l’anno dopo dalla netta vittoria di Alberto Fernández in Argentina a spese del macrismo, uno dei pilastri della destra latinoamericana.

I due presidenti si sono riuniti in Messico all’inizio dell’anno per mettere le basi della creazione di un asse progressista, anche se moderato e pronto a collaborare con Washington qualora il presidente Biden darà seguito alle promesse di prendere le distanze dalla linea – nettamente neocolonialista – del suo predecessore. Questo asse dovrebbe «riportare a galla» la Celac – Comunità degli Stati latinoamericani e del Caribe – per riattivare un processo di integrazione dell’America latina.

Con la netta vittoria in Bolivia del candidato del Movomento al socialismo, Luis Arce e con il possibile successo di Andrès Arauz nel secondo turno delle presidenziali in Ecuador (dell’11 aprile), questo asse moderato potrà rinforzarsi. Se scenderà in campo, come sembra probabile, Lula potrà essere un esponente di spicco di questo nuovo fronte progressista che si sta delineando.

Non sarà comunque un processo semplice né lineare. Né, come avvertono alcuni commentatori (Zibechi, Frei Betto, tra gli altri) le caratteristiche che questi movimenti/governi progressisti propongono – rafforzamento dello Stato, applicazione di politiche compensatorie, uso del modello estrattivo di produzione come sostegno dell’economia, realizzazione di grandi opere di infrastruttura – soddisfano le richieste di democrazia «dal basso» espresse dalle grandi lotte popolari che, dall’Ecuador al Cile, nel 2019 hanno scosso gli equilibri politici del subcontinente.

Tutto il sottosuolo profondo politico dell’America latina è in movimento. In Brasile, per la difesa della democrazia, è bene che Jair Bolsonaro abbia un avversario del calibro di Lula. Ma anche la politica brasiliana necessita di liberarsi dalla dipendenza (tossica) da uno o due leader. Senza l’impulso «dal basso» ben poco di democratico potrà essere ottenuto.