«Le fotografie di Ghirri, non documentano niente di preciso, soltanto “ti fanno vedere”. Ma in questo “farti vedere” anche le cose più insignificanti, meno fastose, danno alle cose la dignità dell’essere». In queste parole scritte da Gianni Celati per l’amico Luigi si ritrova tutto il valore di uno dei più affascinanti sodalizi artistici di tutto il nostro 900. Era stato Ghirri a chiamare lo scrittore nel 1981, alla vigilia della grande avventura di Viaggio in Italia. La risposta era stata immediata e senza riserve. Per l’uno e per l’altro la sfida necessaria e affascinante era quella di uscire dal seminato delle rispettive forme espressive. Ghirri voleva liberare la fotografia del paesaggio italiano dal modelle delle cartoline «unte di colombi».

CELATI seguendo l’amico fotografo scopre un modo nuovo di concepire il mestiere di scrittore. «Andando in giro con Ghirri per le campagne, ho imparato a prendere appunti su quello che vedevo, sulle voci, sulle case, sui posti. Mi ripetevo: “Questo non è letteratura, non è letteratura, è un reportage sulla visione che abbiamo dei posti”». Il termine «reportage» viene non a caso ripreso nel titolo del testo che Celati scrive per il libro di Viaggio in Italia nel 1984: «Verso la foce. Reportage per un amico fotografo». Nel libro il testo corre insieme alle foto in una commistione di sguardi che è impossibile immaginare separati.

COSA C’ERA ALLA RADICE di questi sguardi? C’era certamente un’energia affettiva nei confronti della realtà, una predisposizione ad aprirsi alle cose anziché giudicarle. Erano sguardi che «non spiavano bottini da catturare», come aveva detto Celati, ma pronti a scoprire che «tutto può avere interesse perché fa parte dell’esistente». In questo senso la parola «reportage» si carica di un significato inedito. Fotografo e scrittore evitano di darsi degli obiettivi e scelgono invece il vagabondaggio come metodo pratico per la loro ricerca (di un «sentirsi perduti e affidarsi ai grovigli del vedere», parlava infatti Ghirri). Il risultato è che una volta entrate nell’obiettivo o trascrittte sul taccuino, le immagini, trovate e non cercate, «è come se mostrassero il proprio senso, indipendentemente da quelli che gli attribuiamo noi da fuori» (Elio Grazioli, nel fascicolo di «Riga» dedicato a Gianni Celati).

C’È UN’ESPRESSIONE bellissima che i due si rimandavano l’un l’altro per definire il senso delle rispettive professioni di fotografo e scrittore: «fare carezze al mondo». Questo non significava affatto ripulire la realtà dagli effetti di un progresso scriteriato e a tratti devastanti, come accaduto anche in Emilia, loro terra d’elezione. Ma quel loro camminare insieme, che sarebbe durato fino alla morte del fotografo nel 1992, aveva garantito a Ghirri e a Celati di non restare «infognati nei cattivi pensieri», ovvero nel catastrofismo, e di proporre visioni contemporanee in cui il sentimento per le cose trovava sempre uno spazio per affermarsi. Poco dopo la morte dell’amico fotografo Celati gli aveva dedicato un film. Come ha sottolineato Marco Belpoliti, testimone della prima ora di questo loro sodalizio, il titolo provvisorio era Ricordo di Luigi. Fotografia e amicizia. Raramente, nella recente storia culturale, la parola amicizia ha avuto altrettanta pregnanza non solo di legami ma anche di contenuti.