Nella primavera del 1973, conclusa l’ennesima dittatura, l’Argentina era di nuovo alla vigilia delle elezioni, e il settimanale Extra (abbastanza conservatore da fiancheggiare, in seguito, la Giunta militare) chiese a Maria Elena Walsh un articolo rivolto alle donne incerte su chi e che cosa votare. Lei accettò, ma quello che consegnò a Bernardo Neustadt, discusso direttore della rivista, era un testo intitolato Lettera a una compatriota, in cui non si davano indicazioni di voto e si parlava invece del Movimento di Liberazione della Donna: un appello limpido e duro alla «sorellanza» e alla rivolta che, nell’Argentina dell’epoca, faceva pensare allo scoppio di un petardo in camera da letto o in cucina, luoghi consacrati alla femminilità così come la intendevano l’opinione comune, la Chiesa, i governi deposti o creati da regolari colpi di stato.

ESUBERANTE E RISERVATA, spesso brusca e pronta a menare fendenti contro chiunque pensasse di tener buone le donne con elemosine e contentini («ma noi, come i neri, i colonizzati, la classe lavoratrice, man mano che prendiamo coscienza non vogliamo saperne di elemosine; vogliamo quello che ci appartiene di diritto e che giorno per giorno ci viene strappato, cioè tutto»), Maria Elena Walsh aveva allora quarantatrè anni ed era una celebrità nazionale nel campo della letteratura e soprattutto della musica per l’infanzia.
Le sue canzoni, dai testi per nulla scontati o concilianti, formavano l’ossatura di spettacoli in cui rivestiva il ruolo di juglar – ossia di menestrello -, e scivolavano poi in altri formati, grazie all’uso oculato di una vera «catena multimediale»: dischi, televisione, libri che si aggiungevano alle storie che Walsh aveva cominciato a pubblicare già nel 1960 con enorme successo.

Dietro la fama di autrice per bambini c’erano, che il suo pubblico lo sapesse o no, una personalità polemica e complessa, un graffiante senso dell’umorismo e il desiderio di affrontare esperienze sempre nuove sin da quando, a diciassette anni, aveva vinto un premio importante con il suo primo libro di versi, Otoño imperdonable, capace di attirare l’attenzione della società letteraria argentina (Victoria Ocampo la volle come collaboratrice della rivista Sur), ma anche quella di Juan Ramón Jiménez, futuro premio Nobel per la letteratura.

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Esule negli Stati Uniti, il poeta spagnolo le offrì una sorta di borsa di studio e sei mesi di ospitalità: un rapporto difficile, quello tra l’allieva e il mentore, dal quale, tuttavia, la ragazzina imparò moltissimo; la severità di Jiménez la aiutò forse a capire che, pur senza rinunciare alla poesia (negli anni avrebbe scritto altri libri di versi, dignitosi ma non indimenticabili), poteva tentare altre avventure.

Nel 1951, infatti, Maria Elena lasciò di nuovo Buenos Aires (dov’era nata da una famiglia di origine inglese), «rapita» da Leda Valladares, musicologa e folklorista che la portò con sé a Parigi, lontano dal detestato peronismo (col quale Walsh, però, si riconciliò anni più tardi), per formare un duo fortunatissimo, che cantava canzoni andine davanti a platee in cui sedevano Miró, Picasso o Prévert. Anni di liberà assoluta, i primi dischi, e la possibilità di vivere, con Leda, un amore che laggiù sembrava non scandalizzare nessuno.

DOPO UN RITORNO in patria che finì per dividerla da Valladares, Maria Elena si reincarnò in una solista di straordinaria notorietà, e trovò una nuova compagna nella regista María Herminia Avellaneda, che la diresse in tv, in un paio di film e soprattutto in teatro, dove Walsh cominciò a stupire anche il pubblico degli adulti con recital sofisticati come Juguemos en el mundo.
La nuova Maria Elena, che componeva ed eseguiva canzoni pop aperte a influssi diversi, non sapeva ancora che alcune di esse sarebbero diventate inni della protesta per una sinistra alla quale, in realtà, lei non apparteneva, e che sarebbero entrate nel repertorio di artisti come Mercedes Sosa e Joan Manuel Serrat.

Finché, nel 1978, annunciò (e mantenne la parola) che avrebbe smesso di comporre e di cantare: accerchiata e soffocata dai veti della Giunta militare, doveva anche lottare contro una grave malattia le cui conseguenze la tormentarono per il resto della vita. Non avrebbe smesso di scrivere, però, né rinunciato a pubblicare, in piena dittatura, invettive contro i censori e testi esilaranti come quello in cui elenca i ventiquattro perché di un solido machismo. L’umorismo e il sarcasmo erano, del resto, la sua arma abituale, la più affilata, quella che maneggiava con più abilità.

La Maria Elena pacifista, femminista a oltranza, borghese ribelle e politicamente scorretta, aveva trovato nel 1980 il suo gran amor, la fotografa Sara Facio. Del suo orientamento sessuale, noto a tutti, nessuno aveva mai parlato pubblicamente, lei compresa, che non si era mai finta eterosessuale, ma che, fece notare in una delle sue ultime interviste, non vedeva motivo per raccontare i fatti propri.

NEL 2008, però, si decise infine a «uscire dall’armadio» dichiarando il suo trentennale amore per Sara in Fantasmas en el parque, secondo e ultimo libro scritto per gli adulti – nel primo, Novios de antaño, aveva rievocato gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza -, che è insieme un romanzo e un’autobiografia, in cui sogni, ricordi di viaggi e di incontri, confessioni e soprattutto ombre amate o detestate, si accumulano e si fondono, proprio come le contraddizioni, le asprezze e le risate di Maria Elena, che è morta sei anni fa lasciandoci questa singolare «macchina del tempo» in cui, scrive il suo amico Leopoldo Brizuela, non appaiono una sola volta le parole gay, lesbica, omosessuale, eppure si realizza «una costante riflessione su come ricordare in letteratura ciò che a suo tempo si sperimentò in segreto».
Un addio degno di quella che è stata e resta una delle figure più popolari e più amate della cultura argentina.