L’odore del potere è acre, appiccicoso, ricorda la vischiosità delle muffe perché scivola dentro le narici e insieme rimanda alla porosità delle strade sporche. Potrebbe essere urticante, ma non lo è. Avvolge la pelle come fosse polvere stantìa. E d’altronde è proprio dalla polvere del mondo che parte Luca Vitone per avventurarsi lungo le pendici del presente con la sua arte radicale. La raccoglie esponendo le sue tele agli agenti atmosferici delle città, inventando così uno spettro cromatico «vivente», che restituisce la salute e la decadenza dei luoghi, una fenomenologia urbana geografia certo ma anche sociale, conferendo visibilità a ciò che non ce l’ha. La stratificazione di colori «nocivi» è poi soprattutto un fatto mentale. Come quella lista di nomi, l’elenco dei 959 iscritti alla Loggia massonica P2 che trasforma un luogo d’arte in un’arena politica.
In fondo, quando Vitone registra le canzoni tradizionali delle minoranze etniche, quando le va a rintracciare sulle mappe non agisce in controtendenza rispetto al suo itinerario consueto. Nelle vesti di un taumaturgo e uno sciamano che assorbe entità impalpabili sul proprio corpo, intreccia, interroga, scarta, riannoda voci e gesti dimenticati. La sua è un’allerta sensoriale che invita a non rimuovere la Storia.
Al Pac di Milano, l’antologica dedicata all’artista genovese (curata da Luca Lo Pinto e Diego Sileo, visitabile fino al 3 dicembre), che si srotola lungo un arco di trent’anni, è in realtà un arcipelago di mostre concatenate una all’altra, ognuna delle quali manifesta una possibilità di lettura a sé. Una manciata di «isole» concettuali che testimoniano il grande rigore di un autore che ha sempre guardato allo spazio in maniera esoterica, preparandolo a una serie di metamorfosi dettate dall’urgenza dei tempi. Una rassegna tentacolare questa meneghina, con altre propaggini nel complesso dei Chiostri di Sant’Eustorgio e l’installazione Wide City (realizzata nel 1998, poi acquisita dal comune di Milano e mai più vista) esposta al Museo del Novecento.

1 Ultimo viaggio
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INVOLUCRI VIVENTI
La prima cosa da comprendere quando si entra in questo tempio dell’arte contemporanea è che Vitone lo ha immaginato come una enorme scatola-contenitore, dove neanche le pareti hanno potuto rimanere neutrali. L’artista le ha arruolate come fossero un involucro, un bozzolo polveroso che racconta la storia di quell’ambiente, la sua temporalità, il suo «esistere» fisicamente in un palinsesto di accadimenti. L’intento è quello di riproporre un’opera degli esordi – Galleria Pinta – che racchiudesse in sé gli esiti passati e futuri di un percorso artistico. Così Vitone ha realizzato una planimetria in scala 1:1 del Pac: nessun visitatore, neanche il più distratto, può rimanere indifferente al luogo, deve comunque calpestarlo. È costretto a vederlo e sentirlo. A toccare con mano il tempo che passa. Il pubblico dovrà però constatare, in quell’aggirarsi tra stanze e corridoi, la sua assoluta incapacità di astrazione, trovandosi disorientato nel bel mezzo di una rappresentazione grafica che invece vorrebbe fornire le coordinate. Il registro con cui si sperimenta il luogo della mostra è, infatti, meramente soggettivo. Non può rispondere a indicazioni cartografiche certe, che ovviamente non esistono. L’artista catapulta lo spettatore lungo il perimetro di un disegno che coltiva nelle sue linee nette un continuo spaesamento, slittamento, una distorsione dello spazio. L’altro strumento – immateriale – che rappresenta un antidoto all’anestesia e all’asetticità dei sensi cui siamo stati spinti in questi ultimi secoli dalla cultura occidentale, è l’olfatto.

IL MARE DENTRO
Luca Vitone, attraverso gli odori (e spesso anche con i suoni, come nel ciclo Trallalero o i canti di popoli in estinzione che registra per poi liberare tutti insieme in un coro disarmonico), tesse le sue trame – favole, storie, ricordi, topografie emotive. Quando nel 1984 lasciò Genova, racconta, la nostalgia lo portò a identificare la città «con il respiro, grazie al profumo del mare». Nel 2001 aveva invece pubblicato un libro insieme a Monica Carocci dove fra le pagine si poteva ispirare il bosco stesso, attraverso l’invenzione dell’odore del muschio.

Calliope Corteggiamenti
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L’esposizione milanese dunque si dà al pubblico con un susseguirsi di grandi vuoti (apparenti), in realtà spazi interattivi che intensificano la percezione. La poetica del frammento, del «residuo» che più che archeologico è intimo (come la vecchia macchina con cui fece, bambino, un viaggio da Genova fino in Turchia e Iran con il padre, imbevuto di fantasie esotiche) è il filo rosso che ha guidato l’attività creativa di Luca Vitone, mentre incanto e disincanto sono i due termini entro i quali si può leggere gran parte del suo corpus di opere. In quel solidificarsi delle sue idee, tramite oggetti, suoni, immagini, video non vengono mai tracciati confini definiti: le bandiere dell’installazione Nulla da dire solo da essere sono una foresta di culture che si riprendono il centro dopo anni di marginalità. Su quei drappi sono ricamate citazioni anarchiche ma non solo: l’iconografia di alcuni vessilli appartiene ai Rom e Sinti. Si muovono col vento, come fronde di alberi boschivi, sono stendardi che resistono alla cancellazione forzata delle nuove gerarchie e dei poteri, nonostante la fragilità e deperibilità dei loro materiali.