L’immagine è così netta da sembrare deliberatamente impaginata eppure qualcosa di impalpabile e di magico persino (due sorrisi allineati in prospettiva ed entrambi appena accennati) anima questo che è forse il ritratto più intimo di Pier Paolo Pasolini, datato 1962 nell’appartamento di via Eufrate all’Eur: gli è vicino, in un secondo piano vellutato dal flou, sua madre Susanna laddove la fisica somiglianza nonché la concomitanza della postura e dello sguardo evocano quello che è senz’altro il testo poetico più arreso, e pressoché coevo, di Pasolini medesimo, Supplica a mia madre.

CHI HA SCATTATO la foto oggi celeberrima e ascritta nell’immaginario dei lettori a una duplice etimologia è un maestro di umanesimo quale Mario Dondero la cui poetica, da lui più volte ribadita nelle interviste, consisteva nel fatto di dirsi molto interessato agli individui non in quanto esseri fotografabili ma solo in quanto esseri umani. E l’immagine del poeta quarantenne, preso dentro una così sottile beatitudine, si accampa oggi sulla copertina di Pasolini e il suo doppio (Guanda, «Biblioteca della Fenice», pp. 174, euro 17), uno studio di Marco Belpoliti che integra e riprende fra l’altro le pagine del suo Pasolini in salsa piccante (2010).

Non si tratta di un lavoro stricto sensu di critica letteraria ma di un’originale analisi dell’iconografia pasoliniana sulla base della fotografia d’autore. Infatti da un repertorio immenso (in cui vanno idealmente inclusi anche gli scatti più anonimi di reportage perché per almeno vent’anni, fin dal processo a Ragazzi di vita, Pasolini fu oggetto sia di linciaggio in cronaca nera sia di patologico voyeurismo su mandato della cosiddetta maggioranza silenziosa), Belpoliti seleziona alcune serie di scatti e le ordina per cronologia. Esse scandiscono i momenti apicali della vita di Pasolini, prima la fuga dal Friuli a Roma con Susanna nel ’50 (dopo la denuncia per atti osceni), quindi il progressivo accreditamento nella cultura italiana da poeta civile e poi da regista di successo, infine l’assassinio davanti al mare di Ostia, la notte del 2 novembre ’75, nella cui atrocità si cela tutta la violenza di una esecuzione.

Belpoliti opera per saggi monografici e raccordati dall’interno leggendo la grammatica delle immagini e rinvenendovi i tratti di una corporeità non tanto sovraesposta e invasiva, come vorrebbe un consolidato stereotipo, quanto, viceversa, sempre più prossima al senso dell’opera fino alla fisica incorporazione delle immagini (come pure si è ipotizzato) nello scartafaccio terminale di Petrolio. E, al riguardo, leggere quei ritratti equivale a coglierne il riflesso in una alterità vicaria o nel doppio speculare e cioè nelle figure di un giovanissimo Narciso, poi di un Edipo e di un Cristo esiziale che il poeta, nella dislocazione di un’opera estesa a tutto campo, ha sentito alla stregua di sigilli autoriali.
Al riguardo, Belpoliti introducendo il suo studio rileva: «Per descrivere la propria personalità userà infatti, tra le altre definizioni di matrice letteraria, anche l’espressione fissazione narcissica e poi quella di Doppio. Questa è una delle figure chiave dell’intera opera di Pasolini, non solo del poeta, ma anche del romanziere, del cineasta, del polemista, e dell’autore del romanzo-fiume Petrolio».

IL PASOLINI DI DONDERO, domestico e amicale, è dunque il baricentro fra immagini centrifughe nello spazio e nel tempo. In giacca e cravatta nello scatto di Paolo Di Paolo, primi anni Sessanta, ecco Pasolini rincorrere il pallone in una partitella di adolescenti (all’Acquasanta, palazzi in costruzione oltre gli sterri: è il set del suo straordinario mediometraggio La ricotta) o assiso sul Monte dei Cocci mentre fissa la vastità di Roma oltre il Gasometro come scrutando un’immensa periferia meridionale; oppure eccolo a Milano, durante le riprese di Teorema, ritratto nientemeno da Ugo Mulas per una sequenza il cui esito maggiore è un profilo scuro e ligneo, una foto che richiama la tecnica incisoria «alla maniera nera» del grande Alberto Rocco.

LA SEZIONE CULMINANTE del suo studio Belpoliti la riserva tuttavia a Dino Pedriali i cui scatti, databili grosso modo all’ottobre del ’75, fissano l’immagine definitiva del poeta (occhiali scuri, jeans delavé, Alfetta metallizzata) sia nel centro di una Sabaudia così austera nei marmi fascisti da sembrare disabitata sia all’interno della Torre di Chia, il ritiro ascetico, mentre è intento a scrivere le pagine di Lettere luterane o a ritrarre a carboncino il suo maestro Roberto Longhi o infine a esporsi nudo all’obbiettivo del fotografo in un estremo, e forse in qualche modo presago, rito di auto-spoliazione. (Ne scrisse a suo tempo, calcolando esattamente il valore della antifrasi, Federico De Melis nella sua introduzione a Mario Dondero, Scatti per Pasolini, 5 Continents Editions 2005).

Nel caso di Pedriali, allora giovanissimo e però reduce dai ritratti di Man Ray e di Andy Warhol, si coglie una complicità che la morte imminente del poeta, con effetto retrospettivo, non può che suggellare: «Quello che qui conta – scrive Belpoliti nel capitolo intitolato Doppio corpo – è l’osmosi di sguardi che si è creata tra i due: il soggetto e l’oggetto, il fotografo e lo scrittore; qualcosa che non si spiega se non con una sorta di mimesi del fotografo rispetto allo scrittore, con la sua giovane età, ma anche con la devozione emotiva, sensuale, erotica Queste sono immagini in cui la volontà del poeta e regista di vedersi rappresentato e quella opposta di rappresentarlo del fotografo vengono a coincidere, a collimare, in una inconsueta visione comune».

Qui va aggiunto che solo un saggista educatosi sulla fotografia avrebbe potuto firmare Pasolini e il suo doppio e in effetti Diario dell’occhio (1993) e L’occhio di Calvino (‘96) già si intitolavano due fra i primi contributi di Marco Belpoliti: tra i suoi maestri due pasoliniani mai dichiarati (ma tali in pectore), lo scrittore Gianni Celati e il fotografo Luigi Ghirri.